La società contemporanea affonda le proprie radici nella piena consapevolezza che soltanto la esistenza di regole di condotta, in grado di esprimere il sentire comune ed orientare il comportamento dei singoli membri, possa costituire la base di una società organizzata
Avv. Giovanni Parisi
Il suddetto principio, espresso dal brocardo latino “ubi societas, ibi jus”, nel corso dei secoli ed a fronte di un costante mutamento delle esigenze sociali, si è posto a base del sorgere di una moltitudine di fonti del diritto.
Tutta la nostra tradizione giuridica è stata essenzialmente dominata dalla distinzione tra due modi tipici di produzione del diritto: la consuetudine e la legge.
Ancor più “plasticamente”, la consuetudine rappresenta il diritto che nasce direttamente dalla tradizione, mentre la legge è il diritto che nasce in una società attraverso l’intermediazione di un potere organizzato: l’una impersonale, l’altra personale o personificata.
Non vi è società organizzata in cui questi due momenti della produzione giuridica non siano, in misura maggiore o minore, presenti.
Lo studio del diritto consuetudinario, oggi, è affidato quasi esclusivamente alla dottrina del Diritto Internazionale, ove il concetto di diritto spontaneo ha fornito il principale argomento avverso la concezione tradizionale del diritto positivo; ed è pur sempre coltivato in quella sede di ricerche più dottrinali che pratiche, sostanziante la teoria generale del diritto, in cui la consuetudine è un “banco di prova” severissimo per i concetti generali del diritto come la imperatività, i destinatari, la validità e la effettività.
Il rilievo da sempre rivestito dalla consuetudine acquista, infatti, nella dimensione globale una posizione sempre più determinante, posto che la «forza normativa del fattuale» (die normative Kraft des Faktischen, nel linguaggio di Jellinek) si situi essenzialmente prima che la regola sia codificata.
In particolare, la eterogeneità e la dinamicità della Comunità Internazionale determinano la impossibilità di individuare nello jus scriptum la sua fonte principale, privilegiando, piuttosto, la effettività del diritto nel generale principio “pacta sunt servanda”.
In ossequio al suddetto principio consuetudinario, difatti, una norma di identificazione consuetudinaria per eccellenza pare essere quella (di riconoscimento del Diritto Internazionale) secondo cui costituiscono Diritto Internazionale: le consuetudini (internazionali, appunto) seguite (effettivamente) nella comunità, nonché i Trattati.
Tuttavia, a fronte del rilievo rivestito dalla fonte consuetudinaria nell’ordinamento internazionale, l’ordinamento italiano si è da sempre mostrato restio ad inquadrare l’usus quale fonte cardinale del sistema statale.
L’ordinamento italiano, pur riconoscendo il carattere fondamentale della funzione e dell’efficacia delle regole derivanti dal costume nella evoluzione del diritto, risulta fondato sull’assunto in base al quale i Valori Supremi a cui lo stesso si ispira, benché preesistenti all’ordinamento stesso, debbano trovare la loro “formulazione in una proposizione linguistica che ne precisi i termini e la portata” (per riprendere il Martinez), garantendone, nel contempo, la legittimazione.
Verso tale conclusione depone d’altronde un triplice argomento.
In primo luogo, se il valore della prassi riposa sulla «autorità del fatto», sarebbe illogico ricorrere ad esso per negare l’autorità della norma giuridica, e dunque la sua stessa ragion d’essere: ciò equivarrebbe, infatti, a negare il rilievo di ogni sorta di codificazione, ed anzi dell’ordinamento in sé e per sé.
In secondo luogo, se i fatti hanno valenza normativa, tale significato è, in modo ancor più pertinente, proprio delle norme, sicché il circuito “fatto-norma” va percorso in entrambe le sue direzioni: tenendo conto tanto della «forza normativa del normativo», che del ruolo pedagogico del diritto, attesa la sua capacità di guidare la evoluzione dei rapporti sociali, anziché di esserne guidato (ex iure oritur factum).
In terzo luogo, se la prassi ha per effetto di svuotare le «menzogne convenzionali» di cui parlò il Mortati, se ogni contrasto fra norma scritta e prassi va risolto a vantaggio di quest’ultima, in conclusione si giungerebbe ad un paradosso: quello di reputare una norma tanto più vigente e vincolante quanto meno è utile, posto che in essa si riflette la realtà sociale.
Pertanto, nell’ordinamento italiano, la consuetudine, essendo istituita e regolata da fonti sulla produzione di rango legislativo, è una fonte di produzione strutturalmente subordinata alla legge ed abilitata ad operare solo nei limiti in cui quest’ultima lo consenta.
In particolare, l’art. 8 delle Disposizioni sulla legge in generale dispone che “nelle materie regolate dalle leggi e dai regolamenti gli usi hanno efficacia solo se sono da essi richiamati.”
La dizione dell’articolo, per quanto enigmatica, viene comunemente interpretata nel senso per cui non sono ammesse nel nostro sistema ordinamentale consuetudini contrarie a leggi e a regolamenti (contra legem), bensì esclusivamente consuetudini che integrino e specifichino il dettato legislativo (secundum legem o interpretative), ovvero disciplinino materie non regolate da una legge (praeter legem).
(parte prima)