Il disastroso epilogo di ogni evento naturale è l’ulteriore dimostrazione di quanto la Sicilia sia ormai da troppo tempo, vittima di atteggiamenti politici passivi e superficiali, nonché di strategie e azioni orientate verso interessi speculativi perseguiti senza scrupoli
di Raffaella Santoro
Interi quartieri devastati, strade sommerse, case distrutte, vite umane andate in pezzi. E’ il risultato delle numerose calamità naturali: alluvioni, terremoti, maremoti, che colpiscono senza pietà villaggi, città, intere aree del nostro Paese. La forza irruente della natura che si scatena non conosce limiti. Nella maggior parte dei casi, però, non si scatena per caso, ma si ribella ai soprusi inferti dall’uomo che le si antepone, sentendosi superiore e in grado di gestirla, dominarla e assecondarla alle proprie esigenze e ai propri interessi. E l’uomo, infatti, che trasforma ogni calamità naturale in tragedia di immani proporzioni. In realtà, ‘tragedie annunciate’, anche se le chiamano calamità naturali.
Il disastroso epilogo di ogni evento naturale è l’ulteriore dimostrazione di quanto la Sicilia sia ormai da troppo tempo, vittima di atteggiamenti politici passivi e superficiali, nonché di strategie e azioni orientate verso interessi speculativi perseguiti senza scrupoli.
Dal 1950 a oggi sono stati spesi più di 200 miliardi di euro per riparare ai danni causati da calamità naturali.
Tutti i disastri legati a eventi naturali ripropongono con forza le tematiche legate all’assetto idrogeologico e alla sicurezza delle persone e dell’economia produttiva, soprattutto agricola. Per comprendere l’esigenza di provvedere in fretta per una reale difesa del suolo, basta tenere presente alcuni dati: oggi, 8 comuni su 10 ricadono su aree ad elevata criticità idrogeologica; innumerevoli immobili sono abusivi, costruiti non a norma e, quindi, a grave rischio di fronte a una calamità naturale.
Ecco perché, oltre agli interventi legati all’emergenza, è indispensabile perseguire una serie di azioni coordinate tra il governo centrale e il governo regionale. Azioni, comunque, volte, in primo luogo, alla prevenzione.
Proprio la prevenzione dovrebbe tenere conto, in primo luogo, di un piano di protezione civile, strumento indispensabile per ogni comune per far fronte a qualsiasi tipo di emergenza. Ma in cosa consiste un piano di protezione civile, esattamente? I comuni che vogliono trovarsi organizzati e preparati di fronte a un emergenza realizzano un Piano Comunale di Protezione Civile in relazione agli scenari di rischio a cui è soggetto il territorio comunale. Questo prezioso strumento prevede una banca dati contenente una mappa con le zone cosiddette a ‘rischio’, un elenco di tutte le risorse disponibili sul territorio comunale (materiali, mezzi di trasporto, attrezzature), la creazione e la diffusione di materiale esplicativo, nonché l’organizzazione di incontri con la popolazione.
Più del 50 per cento dei Comuni siciliani non ha un piano di emergenza post calamità. Su 390 comuni dell’Isola, sembrano esserne forniti soltanto 190. Duecento, quindi, i comuni ancora sprovvisti.
Una carenza molto grave se consideriamo, appunto, i comuni che ricadono su aree a forte rischio idrogeologico e i comuni che ricadono su aree costantemente minacciate dalle colate di lava e dalla cenere vulcanica dell’ Etna.
L’assenza di una pianificazione organica rappresenta una enorme piaga per la Sicilia e rallenta il processo degli aiuti e dei soccorsi che dovrebbe scattare di fronte a qualsiasi calamità naturale. La Sicilia, in materia di sicurezza e protezione in caso di emergenza legata a calamità naturale, si disciplina ancora su una legge urbanistica di 35 anni fa, che, insieme ad una burocrazia lenta e farraginosa, ingessa lo sviluppo e la sicurezza del territorio.
Nel luglio del 2012, una legge disponeva l’obbligo per le Regioni di inviare, entro 90 giorni, il piano comunale di emergenza approvato con delibera consiliare. La Sicilia era, fino a pochi mesi fa, una delle tre sole regioni della Penisola che non avevano ancora neanche risposto.