Secondo una recente sentenza, il diritto all’anonimato della madre prevale sulla dichiarazione giudiziale di maternità. La sentenza ha dato adito a forti contrapposizioni. Percorriamo le motivazioni che hanno indotto alla sentenza.
di Redazione
Il Tribunale di Milano, con sentenza del 14 ottobre 2015 numero 11475, ha ritenuto inammissibile la dichiarazione giudiziale di maternità nei confronti di una donna che, al momento del parto, ha dichiarato di non voler essere nominata. Così facendo, la donna aveva negato alla figlia inabile di ottenere il mantenimento.
Con questa sentenza, il diritto all’anonimato della madre ha finito con il prevalere sulla dichiarazione giudiziale di maternità.
E’ più giusto garantire il diritto all’anonimato a un genitore o il diritto di essere riconosciuto a un figlio?
Certo, l’esito della sentenza è, a dir poco, discutibile.
Prima di inoltrarci sull’esito della sentenza, è opportuno chiarire cos’è la dichiarazione giudiziale di paternità e di maternità. In parole molto povere, quest’ultima rappresenta lo strumento giuridico mediante il quale il soggetto nato fuori dal matrimonio può conseguire lo status di figlio naturale, indipendentemente dalla volontà del padre o della madre.
Infatti, se il rapporto di figlio naturale non è stato riconosciuto da uno dei genitori, o da entrambi, il figlio può comunque ottenere l’accertamento del suo status di figlio naturale, promuovendo un’azione giudiziaria al fine di ottenere una sentenza che dichiari la filiazione naturale.
L’azione per la dichiarazione di paternità e di maternità naturale è un’azione di stato.
La sentenza di cui parlavamo ha disconosciuto, quindi, un diritto tanto dibattuto.
Nel caso specifico, la figlia, gravemente disabile, all’età di 40 anni, cita in giudizio la madre, che alla nascita non l’aveva riconosciuta, perché era sposata con un altro uomo e l’aveva concepita fuori dal matrimonio. La figlia, la cita per ottenere la dichiarazione di maternità naturale ai sensi dell’art. 269 c.c., chiedendo gli arretrati di mantenimento dalla nascita in poi, nonché un assegno mensile per il futuro.
La figlia era stata riconosciuta soltanto dal padre ed era stata cresciuta da una coppia scelta dal padre, con il suo sostegno economico.
La presunta madre si costituisce in giudizio, opponendosi alle richieste della figlia e facendo rilevare che la cartella clinica attestava unicamente che in quella data aveva dato alla luce un neonato di cui aveva espressamente dichiarato di non voler essere nominata madre, senza alcuna indicazione del nominativo bambino.
Il Tribunale di Milano respinge la richiesta della figlia.
Il nostro ordinamento concede alla madre la facoltà di non essere nominata nell’atto di nascita (articolo 30 d.p.r. n. 396/2000).
L’articolo 93 del d.lgs. numero 196 del 2003, che disciplina in materia di dati personali, consente l’accesso al certificato di assistenza al parto o alla cartella clinica, che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, solo dopo 100 anni dalla formazione del documento, tutelando, assolutamente, la scelta dell’anonimato della madre per tutta la vita della stessa e verosimilmente anche per l’intera durata della vita del figlio.
Inoltre, l’articolo 28 della legge numero 184 del 1983, che disciplina sul diritto del minore ad una famiglia, prevede espressamente che l’accesso a informazioni che riguardino l’identità dei genitori biologici non è consentito nei confronti della madre che abbia dichiarato alla nascita di non volere essere nominata.
In realtà, negare il diritto di riconoscimento a un figlio che non ha nessuna responsabilità a essere venuto al mondo e tutelare, invece, una persona adulta che mette al mondo un figlio con piena consapevolezza, è un po’ difficile da accettare. Ma se riflettiamo di più, possiamo dire che, in realtà, tutte queste norme sono pensate per tutelare la gestante che, per mille ragioni, decide di non tenere con sé il bambino. E’ giusto garantirle un parto sicuro e in una struttura sanitaria appropriata. In molti casi, la gestante accetta di partorire in una struttura protetta, solo perché le viene garantito l’anonimato nella dichiarazione di nascita.
In questo modo, si garantisce il nascituro e si evitano tragedie più grosse, come l’abbandono o l’infanticidio.
La sentenza è stata e continua a essere, comunque, oggetto di diatribe. Il contrasto continua a ruotare attorno al dilemma se sia più giusto fare prevalere l’interesse della madre naturale all’anonimato sul diritto inviolabile del figlio all’identità personale.
Nel caso specifico, il dilemma si infittisce ancora di più, perché si pongono in contrapposizione il diritto alla vita e alla salute di madre e figlio, indirettamente collegati alla facoltà della madre di rimanere anonima, e il diritto del figlio, maggiorenne ma incapace, a essere mantenuto.
Compiendo un bilanciamento dei suddetti diritti non può che essere considerato preminente il primario diritto alla vita.