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Cessazione degli effetti civili e nullità canonica del matrimonio

La delibazione della sentenza canonica di nullità determina il travolgimento delle statuizioni economiche contenute nella sentenza civile di divorzio non passata in giudicato, o comunque la cessazione della materia del contendere nel giudizio vertente sull'assegno divorzile, in quanto esso presuppone necessariamente la validità dell'atto matrimoniale e del conseguente vincolo venuto meno

di Redazione

Con ordinanza n. 5078 depositata il 25 febbraio 2020, la Prima Sezione Civile della Suprema Corte di Cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite il quesito, di particolare importanza, concernente gli effetti del giudicato interno della sentenza parziale di cessazione degli effetti civili del matrimonio, divenuta definitiva per mancata impugnazione della stessa, rispetto alla intervenuta delibazione della pronuncia di nullità canonica da parte della Corte di Appello, con riferimento alle statuizioni accessorie di natura economica ancora pendenti sub iudice.
In particolare, il Supremo Collegio ha richiesto l’intervento dell’Adunanza Plenaria al fine di ritenere o meno la giurisdizione civile travolta dalla sentenza definitiva di delibazione che abbia riconosciuto nell’ordinamento statuale la nullità del matrimonio dichiarata ex tunc in foro canonico, per sopravvenuta cessata materia del contendere sulle questioni patrimoniali tra coniugi avanzate in linea accessoria nell’ambito del procedimento di divorzio, qualora su di esse non si sia formato ancora il giudicato, poiché rimesse al vaglio del giudice istruttore successivamente alla emissione della sentenza parziale di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario, quest’ultima non impugnata.

La questione in argomento è stata oggetto di acceso dibattito nella evoluzione giurisprudenziale di legittimità, ove si sono registrati due orientamenti contrapposti.
Giova, preliminarmente, fare un breve cenno ai dati normativi di interesse: da un lato, la disciplina divorzile, di cui alla legge n. 898/1970, nell’ambito della procedura dispone, all’art. 4, comma XII, “nel caso in cui il processo debba continuare per la determinazione dell’assegno, il tribunale emette sentenza non definitiva relativa allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio. Avverso tale sentenza è ammesso solo appello immediato”. Qualora quest’ultima pronuncia non venga appellata, su di essa si formerà il giudicato interno e si procederà alla relativa annotazione sui registri di Stato Civile. Dall’altro lato, in forza dell’Accordo di revisione del Concordato dell’11 febbraio 1929 con la Santa Sede, stipulato a Roma il 18 febbraio 1984 e reso esecutivo con legge 25 marzo 1985 n. 121, unitamente al Protocollo addizionale, si è inteso tacitamente abrogare, con l’art. 13, la “riserva” di giurisdizione canonica in precedenza vigente per le dichiarazioni di nullità dei matrimoni celebrati con il rito concordatario. La si è sostituita con il criterio della “prevenzione” delle domande giudiziali di nullità (rispettivamente civile o canonica) interposte all’una o all’altra delle giurisdizioni concorrenti.

Tale interpretazione, tuttavia, deve coordinarsi con l’importante chiarimento fornito dalle Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 1824/1993, che ha confermato la giurisdizione ecclesiastica nelle controversie in materia di nullità del matrimonio celebrato secondo le norme del diritto Canonico. Inoltre, ai sensi dell’art. 8 del medesimo Accordo e del punto 4, lettera b) del Protocollo addizionale (che a sua volta richiama gli articoli 796 e 797 c.p.c., abrogati ma con effetti ultrattivi in materia), ai fini del riconoscimento, nell’ordinamento dello Stato italiano, degli effetti giuridici della sentenza di nullità dichiarata in Foro Canonico e divenuta definitiva in virtù del decreto di esecutività del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, dovrà essere introdotto un apposito procedimento di delibazione innanzi alla Corte di Appello che, previa verifica del rispetto dei principi del giusto processo e dell’ordine pubblico interno (art. 8.2 dell’Accordo di revisione dell’85), conferirà piena efficacia giuridica alla sentenza canonica nell’ordinamento italiano, con conseguente accertamento della nullità matrimoniale anche in sede civile.

Fatte le superiori premesse, secondo un primo orientamento giurisprudenziale maggioritario (per tutte, cfr. Cass. Civ., n. 24933/2019), deriva che: a) il giudicato civile sulla cessazione degli effetti civili del matrimonio e sulle connesse questioni economiche non è ostativo alla delibazione della sentenza canonica di nullità del matrimonio, avendo la sentenza di divorzio un petitum e una causa petendi diversi da quelli insiti nella domanda di nullità del matrimonio concordatario (come anche incidentalmente rinvenuto dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 329/2001), investendo la prima l’indagine sulla impossibilità di mantenere o ricostituire la comunione spirituale e materiale tra i coniugi (c.d. “matrimonio-rapporto”), diversamente dalla seconda, ove si contesta la validità dell’atto con il quale è stato costituito il vincolo coniugale (c.d. “matrimonio-atto”); b) la delibazione della sentenza canonica di nullità determina il travolgimento delle statuizioni economiche contenute nella sentenza civile di divorzio non passata in giudicato, o comunque la cessazione della materia del contendere nel giudizio vertente sull’assegno divorzile, in quanto esso presuppone necessariamente la validità dell’atto matrimoniale e del conseguente vincolo venuto meno; c) l’effetto preclusivo suddetto non opera in presenza di un giudicato che investa le statuizioni economiche, in virtù del principio per cui, una volta riconosciuto giudizialmente un diritto, esso rimane intangibile e garantito dall’art. 2909 c.c.

Il contrapposto indirizzo, in verità poco convincente, tende ad escludere nella delibata sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale ogni effetto paralizzante nel giudizio di divorzio, anche quando la sentenza che abbia dichiarato la cessazione degli effetti civili del matrimonio contenga statuizioni economiche sub iudice, cioè non coperte dal giudicato (i.e. in caso di impugnazione del relativo capo), ovvero il processo prosegua per la decisione sulle questioni economiche (per tutte, cfr. Cass. Civ., n. 1882/2019). Il percorso argomentativo seguito dall’orientamento suddetto, afferma la S.C. nella ordinanza in commento, “mira ad isolare concettualmente l’atto costitutivo del matrimonio dal rapporto che è inciso dalla sentenza di cessazione degli effetti civili ed a radicare direttamente e unicamente nel rapporto (e nella cosiddetta solidarietà post-coniugale) la fonte genetica delle obbligazioni patrimoniali tra gli ex coniugi, a prescindere dalla esistenza e validità dell’atto costitutivo”.

“Sono divorziato…lei ha preso l’altra metà”

L’assegno divorzile

Tuttavia, a tale linea di pensiero potrebbe obiettarsi che la solidarietà post-coniugale per come conformata dalla disciplina sull’assegno divorzile, presupponga un rapporto di coniugio fondato su un “matrimonio-atto” valido, atteso che le provvidenze economiche disciplinate dalla legge n. 898 del 1970 sono applicabili solo al coniuge divorziato, mentre diversa è la disciplina legale dei rapporti consequenziali al matrimonio nullo. In effetti, la suddetta tesi, già respinta dalla giurisprudenza maggioritaria, non sembra in grado di spiegare perché il giudicato sul divorzio (all’esito di giudizio nel quale la validità del vincolo coniugale non sia stata contestata) dovrebbe rendere di per sé intangibili le statuizioni economiche non assistite dal giudicato, né perché esso dovrebbe prevalere solo perché antecedente alla pronuncia delibatoria di nullità. D’altro canto, l’accertata autonomia ontologica tra divorzio e nullità matrimoniale (sia civile che canonica), presuppone il principio per cui è la validità dell’atto costitutivo a condizionare la stabilità degli effetti (anche patrimoniali) del “matrimonio-rapporto”, ma non di certo il contrario.
In ragione del rilevante contrasto sopra delineato, si attende che venga fatta chiarezza in merito dalle Sezioni Unite.
Avv. Giovanni Parisi

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