La Sicilia di John Picking è pagina di memoria antropologica ed esistenziale. Su tale solco la ‘personale’ alla Galleria ‘ElleArte’ (‘Planet Studio’) si pone quale segno preciso della sua poetica, approdo alla storia aperta al mito, alla visione, alle fisiologiche contraddizioni insite nella realtà
di Aldo Gerbino
Per alcuni aspetti, una via tortuosa, ma per altri differenti punti di vista, un cammino virtuoso, ci appare quello che, con perseveranza, – o se vogliamo con vorace lucidità, – persegue John Picking sospinto, da lunghissimo tempo, dal suo fedele impegno intellettuale, armato di quel particolare governo ottico che insiste sul mondo e del quale egli gioiosamente s’ammanta. Nato nel Lancashire (classe 1939), studi d’arte condotti a Wigan e all’Accademia di Edimburgo, insegnamento a Manchester, dopo aver percorso la Spagna, la Norvegia e l’Italia (Sicilia e Toscana), dipana la sua esistenza, dagli anni Settanta, tra i noccioleti e le sugherete dei Nèbrodi siciliani e le colline della Franciacorta a ridosso del lombardo bacino lacustre del Sebino. Questa, icasticamente, può considerarsi la carta biologica, antropologica e culturale di John il quale ci ricorda come la geografia (qui etimologicamente trascritta nella misura di scrittura del mondo) non debba essere considerata quale epidermica indicazione, né tantomeno la sua valenza espressiva non possa per altro essere valutata quale semplice ornamento folklorico della propria vita.
Non un corollario, dunque: e, a tal proposito, ne abbiamo un preciso ricordo grazie all’alta qualità delle parole pronunciate da Iosif Brodskij il quale, scrivendo di Derek Walcott e della sua Babele poetica che poggia su d’una Babele genetica, e, in particolare, della sua lingua inglese forgiata nel ribollente meticciato delle Indie orientali poste ai margini estremi dell’Impero, concreta l’idea di come le necessità biologiche, sottratte alle esperienze terrestri e travasate nella cultura, coinvolgano prepotentemente il nostro operato, modellino la nostra psiche. Allora, ogni tentativo di definire il perimetro dell’arte, appare spesso quanto mai riduttivo, e specialmente quando ci si spinge ad incasellare il lavoro creativo o, ancor peggio, circoscrivere l’estensione della vita spesa per l’arte e nell’arte, ecco allora che si esercita un’incomprensione, un’azione di depauperamento; così, proprio per questo, si spiega – ribadisce Brodskij – il ripetuto fallimento dell’interpretazione critica sul tessuto vitale d’un artista (il riferimento è centrato sulla poesia di Walcott), fallimento che «va ricercato, è chiaro, in una scarsa conoscenza della geografia».
Il punto focale di tale osservatorio, inserito nella escursione di Planet Studio, ci offre una rastremata sintesi d’immagini e con una antiporta nata da un esercizio della fine degli anni Sessanta, in cui si sono consolidate, sulla tela, geometria e registro informale, necessità estetiche redatte in quel tempo e nate dall’archiviazione delle accademiche esperienze espressioniste. Opera qui rappresentata da Woman and Tuscan Landscape (1969), gradevolmente germinante in una matrice protometafisica (ma anche toccata, come per tante altre, da quegli strati surreali evidenziati dal poeta Romeo Lucchese) con figure centrali fluidificate ed orientate da tonali blocchi geometrici, e rivolte verso un essenziale orizzonte-finestra. Elementi discoidali, frantumi di carte, simboli d’un catalogo euclideo che ritroviamo, esteso e sviluppato o inserito, in quelle pagine pittoriche contraddistinte dalla forza allegorica d’un classicismo rurale che affascina Picking e che appare particolarmente centrato sulla dimensione mitografica e antropica di una Sicilia per la quale l’omaggio guttusiano, coagulato nella Vucciria, testimonia tale suo trasporto.
Un inventario siciliano distribuito in un manipolo di opere targate 2014 (da Eclipse of the Dancer with Vine a Game table I a Embryo matrix) in cui si osserva un congelamento dei riferimenti figurativi (icona rintracciabile nella tessitura di Cubed Sanctuary del 2011) fino a North and South Memories del 2017 dove la cisti embrionale dialoga con l’interezza naturalistica creata da John. Un diorama visto dall’alto, percorso da quelle tracce emotive che possiamo leggere fin dalle suggestive pagine dell’Aeropittura di Gerardo Dottori (ne espungiamo l’esempio dalla “Virata su fiumi, lago, mare” del 1934) e da cui, dal 2005 al 2017, Planet Studio si attesta su Sicilian Planet in cui il centro non è più occupato dall’artista ma dai suoi personaggi, dalle terre, dai monumenti. Allora nel taglio geologico si ritrovano faglie terrestri, distese agricole, lo spessore dei muri civici (tracce che ricordiamo in Renzo Collura), edicole votive, travi scomposte dai terremoti, capelli neri e sensuali di giovani donne siciliane: tutto inscatolato, imbottigliato, nel timore che qualcosa o qualcuno possano andar perduti. Sarà l’esplosione di un cubo (Explosion of the Cube, 2013) a restituirci, tra le assorte pupille di John, una nuvola destinata in alto, vaporoso scrigno di templi e carrettini, cupole arabe e case contadine; il tutto avvolto dal tremito del vento sulle corde tese d’un mandolino, così come detta l’eterna bizzarria degli dèi.