Da piccoli, trascurati e inseriti in un contesto caotico e inaffidabile, nella peggiore delle ipotesi abusati e abbandonati, da adulti, il più delle volte, cercano il loro posto nel mondo a scapito della vita qualcun altro
di Marina Li Puma*
Da piccoli, trascurati e inseriti in un contesto caotico e inaffidabile, nella peggiore delle ipotesi abusati e abbandonati, da adulti,il più delle volte, cercano il loro posto nel mondo a scapito della vita qualcun altro. Diventano abusanti, inaffidabili, aggressivi,trascuranti e intolleranti a qualunque regola o dictat morale-comportamentale. Inadeguati dal punto di vista emotivo e sociale, i soggetti con disturbo antisociale di personalità, riescono a sfuggire per anni all’ “occhio” di un’osservazione clinica che raccolga il trascorso spesso tragico di questi individui.
Spesso,infatti, non sollevano sospetti poichè funzionano piuttosto bene in diverse aree della loro esistenza( quello professionale, per es.)ma prima o poi arriva il momento in cui il “demone”della rabbia prende il sopravvento e viene fuori nelle forme più svariate: accessi d’ira, condotte criminali come abusi intrafamiliari, sino ad arrivare al parossismo di comportamenti omicidiari. La cronaca, purtroppo, ci riempie le giornate di eventi del genere, in cui si racconta di inaspettate esplosioni di devianza di un adolescente o di un marito che sembrava irreprensibile,oppure ancora di una vicino di casa che, per quanto solitario potesse apparire, non poteva far presagire in alcun modo l’avvento di una tale carica distruttiva.
E accanto all’effettivo danno spesso irreparabile che questi soggetti producono a detrimento di un altro essere umano, vi è il senso di “stupor angoscioso” di familiari e amici, che, nonostante la schiacciante evidenza dei fatti,continuano a tenere in vita un incongruo punto di domanda sull’effettiva “mostruosità” dell’affine,rispetto al quale si preferisce pensare che sia stato dominato da una forza maligna esterna e incontrollabile, piuttosto che attribuirgli la piena responsabilità della colpa.
Per questo la Arendt nel suo libro “ La banalità del male ” afferma che il male non ha profondità “si estende alla superficie come un fungo ed è per questo banale” e cioè persone“banali” ad un certo punto si trasformano in agenti del male proprio perché rimangono in “superficie” scegliendo di non dialogare con le radici profonde del loro indicibile dolore.
*psicoterapeuta