Ha calcato i palcoscenici più famosi del mondo, entrando nel novero dei più grandi soprani a livello mondiale. Ma come arriva a conquistare il mondo? Jessica Pratt ci svela in questa intervista le fila attraverso le quali si snoda la sua carriera
di Patrizia Romano
Nata nel Regno Unito e cresciuta a Sidney, comincia a soli 8 anni a suonare la tromba. Dieci anni dopo, spinta dal padre tenore, si dedica interamente al canto. Vince numerosi concorsi canori a livello locale. Nel 2003, varca i propri confini geografici e comincia la sua esperienza all’estero. Si trasferisce in Italia per studiare presso l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Da qui, comincia la sua carriera internazionale. Così, ad oggi, Jessica Prat ha calcato i palcoscenici più famosi del mondo, conquistandosi la fama di uno dei più grandi soprani a livello mondiale. Ma chi è Jessica Prat fuori dalla sua voce? Cosa c’è al di là? Come arriva a conquistare questa fama mondiale? Siamo partiti dal punto dal quale sono partiti lei e la sua carriera: l’Italia.
La sua fama è, ormai, internazionale. Si è esibita nei teatri più importanti di tutto il mondo. Quando arriva in Italia per la prima volta?
Sono arrivata in Italia nel 2004, invitata da Gianluigi Gelmetti che mi aveva ascoltato in un concorso a Sydney, per seguire le prove al Teatro dell’Opera di Roma come giovane artista. Poi, sono rimasta a Roma a seguire le masterclass di Renata Scotto all’accademia di Santa Cecilia e qualche anno dopo mi sono spostata a vivere a Como. Da 10 anni studio e preparo i miei ruoli con Lella Cuberli a Milano.
Che tipo di rapporto ha instaurato con il pubblico e con la critica italiani? E in Sicilia?
Cantare in Italia è sempre magico. Ho vissuto qui per oltre quindici anni e per me è un po’ come tornare a casa. Negli anni, l’ho girata più o meno tutta, ma la Sicilia, per un motivo o per un altro, mi era sempre sfuggita. Nel mio primo incontro col pubblico Siciliano mi sono trovata benissimo: il mio repertorio è incentrato sulla produzione belcantista italiana e principalmente Donizetti, Rossini e, per l’appunto, Bellini. Quando canti “in casa” di un compositore è sempre doppiamente emozionante, un po’ per l’onore e un po’ per la responsabilità. Il pubblico diventa doppiamente esigente: se sbagli non perdona, ma se fai bene ti ricambia doppiamente con la fiera approvazione di chi questa musica la sente sua.
Quale è stata la sua impressione del pubblico siciliano in occasione della sua esibizione nei puritani?
Confrontarmi con un nuovo pubblico mi mette sempre un pizzico di ansia in più. In questo caso poi è stato un incontro quanto meno rocambolesco. Ero a New York a cantare Lucia e quando mi è arrivata la proposta, ho detto subito si. Sono arrivata a Palermo il giorno prima della recita, avendo dormito poche ore in aereo e con il jet-lag. Giusto il tempo di farmi cucire indosso i vestiti, fare qualche prova al pianoforte col maestro e siamo andati in scena. Potete immaginare il mio nervosismo. Che penseranno di me? E se canto male per la stanchezza? Poi, come detto, sentivo doppiamente la responsabilità di dover cantare per chi ha Bellini nel sangue. Fortunatamente è andato tutto benissimo. Il coinvolgimento del pubblico è stato immediato. Noi cantanti lo sentiamo dal palco… quel magico silenzio che si crea durante una pausa fra le note filate in cui tutti tratteniamo il respiro per qualche istante per poi espirare all’unisono. È un po’ come essere seduta fra il pubblico e più lo spettacolo va avanti più questo legame si intensifica, facendo crescere lo spettacolo. Spero vivamente di avere ancora l’opportunità di “respirare” insieme a questo pubblico in futuro.
Trova il pubblico siciliano competente?
Ovviamente Bellini in Sicilia è autore estremamente conosciuto, ma ancor più della competenza, la cosa che mi ha colpito delle persone che ho incontrato è che dietro l’incredibile giovialità si percepisce la presenza di quella ‘malinconia’ belliniana che, forse solo i Siciliani capiscono fino in fondo. I compositori sono sempre influenzati dalle origini e dal territorio e quando ho l’opportunità di conoscere chi viene da quelle terre, cerco sempre di individuare quella musica nei loro caratteri. Quando non solo parli la stessa lingua, ma anche la stessa musica, la carica emotiva cresce. Coro e orchestra che non hanno mai provato con te, immediatamente entrano in sintonia e tutto diventa più facile. Dopo la lunga permanenza statunitense, in un certo senso mi sono sentita a casa.
E sul piano dell’accoglienza?
Che dire, credo che l’ultima recita mi abbia dato gli applausi più belli della mia carriera finora. Gente in piedi, pioggia di fiori dagli spalti, coro e orchestra che sbattono i piedi tutti insieme. Non si dimentica facilmente.
Lei inizia a entrare nel mondo della musica, suonando la tromba. Si accosta al canto anni dopo, con suo padre, tenore. Quanto la sua famiglia le è stata di aiuto nella musica?
All’inizio è stato mio padre ad insegnarmi tutto. Quando eravamo bambini, invece della ninna nanna, ci cantava ‘Vesti la giubba’ (era la mia preferita fra le sue ‘ninne nanna’). Ci faceva fare solfeggi complicati, trasformandoli in sfide-gioco fra bambini. Credo che la musica mi venga naturale anche un po’ per quello. In meno di undici anni ho debuttato 35 titoli. Molti per chi deve ritagliare lo studio fra le pause della carriera. Ciò nonostante, finora non l’ho mai trovato difficile: è un po’ come aprire un nuovo libro e iniziare a leggere la prima pagina senza guardare di quante pagine è composto il libro. Entro in punta di piedi in un nuovo mondo di musica e parole così come un lettore fa con il libro. Di questo devo ringraziare interamente mio padre per aver reso la musica mai un lavoro, ma una gioia e una parte così naturale della mia vita.
Quando scatta la passione totale per questo genere musicale così particolare?
Da bambina seguivo le lezioni che mio padre impartiva agli studenti e poi andavo in teatro a vederlo cantare in palcoscenico. Uno dei miei primi ricordi d’infanzia è di me che chiedo a mia nonna ad alta voce in sala perché tutti chiamano papà Don Jose e perché sta baciando questa Carmen che non è mamma!
Come si accosta ad un nuovo personaggio da interpretare?
Leggo libri dello stesso periodo storico e con trame simili. Cerco di immaginare la vita a quel tempo attraverso le descrizioni di altri autori. La prosa aiuta moltissimo a entrare nel personaggio. Senza un lavoro di approfondimento storico diventa difficile immedesimarsi e comprendere esperienze e tempi che non abbiamo vissuto. Su questo tessuto di fondo, poi, si inserisce la partitura che fortunatamente ci da tantissime indicazioni interpretative. Un esercizio che faccio spesso è di rileggere un’opera, omettendo interamente tutte le parti del mio personaggio in modo da sentire solo quello che gli altri pensano e dicono di lei. Così facendo, entro di più nella parte e tutto diventa più intuitivo. Quello che invece cerco di evitare fino all’ultimo è di ascoltare altre interpretazioni per evitare di essere condizionata nella fase di apprendimento iniziale. Solo successivamente, dopo aver fissato il ruolo, quando l’opera non è inedita, ascolto le colleghe del presente e del passato per arricchire la mia con la loro esperienza.
La prima regola che un allievo di canto deve imparare?
La pazienza. Questo è un lavoro artigianale che richiede tantissimo tempo e tantissima disciplina. Non bisogna cadere nella trappola di credere ai complimenti, ma cercare sempre qualcosa da migliorare. Non esiste il successo istantaneo… la mia personale esperienza mi dice che tutto quello che sale su velocemente di solito riscende con la stessa rapidità. Non è pericoloso quando tutti ti dicono che sei un miracolo… è pericoloso quando ci credi.
Come vede il futuro dell’opera lirica?
La mia opinione è che la lirica ultimamente soffra per il costante tentativo di competere, sul piano sbagliato, con il mondo della moda e del cinema. La ricerca di volti e corpi a scapito delle voci, la spettacolarizzazione delle scene a tutti i costi, il desiderio di amplificare per poter essere di più impatto. Questi sono, secondo me, tutti errori che il nostro mondo commette ingenuamente. I cantanti non saranno mai belli come i modelli delle passerelle, le scenografie non potranno mai competere con gli effetti speciali di Hollywood, un tenore non riuscirà mai ad emettere più decibel di un concerto rock. L’errore è cercare di emulare quei modelli. Questa disciplina è nata come esperienza collettiva il cui aspetto principale è l’ascolto dal vivo. Gli esseri umani hanno bisogno di stare insieme perché sono animali sociali. Oggi viviamo esistenze sempre più isolate passando ore e ore davanti a smartphone e computer. L’unico momento aggregativo di massa è rimasto lo stadio che però viene vissuto come esperienza aggressiva e di sfogo. Ci manca l’analoga parte di rasserenamento e centratura. Quello è il ruolo del teatro in generale e dell’opera in particolare. Quando tutti in una sala sono in religioso silenzio e un suono, un lamento, vola da un’anima all’altra, si capisce che i cuori di migliaia stanno battendo all’unisono esattamente come per la squadra del cuore. I giovani hanno sull’opera al tempo stesso molti pregiudizi e molta curiosità, ma quando si avvicinano a questo spettacolo con la giusta apertura mentale, i risultati sono sorprendenti. L’opera nasce come rappresentazione culmine di tutte le arti: poesia, architettura, pittura, costumi, movimento, danza, prosa, musica e ovviamente canto. Come tale la sua complessità è enorme, ma lo sono anche le diverse angolazioni con cui è possibile avvicinarsi allo spettacolo. Ci si può innamorare della musica, sognare i costumi, immaginare scenografie e architetture o lasciarsi trasportare dal canto e dalla storia. Io credo che l’opera lirica sopravvivrà a lungo perché inscrive in se stessa le passioni e il lavoro di tanta parte della nostra società.