Sovraffollamento, promiscuità, carenze strutturali, condizioni igienico sanitarie precarie, mancanza di operatori sanitari e mediatori culturali.
La situazione all’interno dei centri di accoglienza per immigrati, già pesante in tempi di pace, in condizioni di emergenza coronavirus è diventata, addirittura, insostenibile.
Per gli 85 mila immigrati ospiti nei centri migranti, Sprar, Cas, Cpr e Hotpsot, la vita è impossibile; un vero incubo.
Le strutture, preposte ad accogliere anche 1.000, 1.500 persone, sono diventate delle gabbie mortali dalle quali non si può uscire. Le sale comuni sono delle camere a gas. E’ impossibile mantenere le distanze di sopravvivenza alle quali ci costringono le norme di sicurezza. Mancano gli spazi vitali. La paura e la tensione sono alle stelle.
Vittime invisibili
Non si sa nulla sulle loro condizioni di salute. Nessuno fa controlli. Stanno dentro segregati in condizioni allucinanti. Ignorati da tutti, come sempre, ma adesso, ancora di più. E nessuno ne parla. Morti silenziose.
Sono delle vittime invisibili.
“C’è una preoccupazione altissima, molto diffusa tra gli ospiti di tutti i centri – dice Tareke Brhane, presidente del Comitato 3 ottobre -. Le strutture ospitano dalle 100 alle 1500 persone. Tutti i locali sono comuni. In camera dormono 4, 6 persone, ma in alcuni casi, anche in 10. Nelle sale mensa, consumano il proprio pasto in centinaia. Le medicherie sono transitate h 24. I bagni sono comuni. Molte stanze non hanno nemmeno le finestre per cambiare l’aria. Alcuni dormono in container, anch’essi sovraffollati, anch’essi senza finestre”.
Diritto di accoglienza
A molti degli ospiti è scaduto il diritto di accoglienza all’interno delle strutture preposte. Il periodo di permanenza all’interno dei centri va dai sei ai 12 mesi. Superato il periodo massimo, devono trovarsi un posto alternativo in cui abitare. “Ma come fanno a trovarsi un’alternativa dall’oggi al domani – riprende il presidente della Fondazione -. Soprattutto in questo periodo. Fuori non possono stare. Devono adeguarsi alle regole come tutti gli altri. Anche se dentro è ancora peggio”.
Il ministero dell’Interno ha emanato un’ordinanza ai Prefetti che prevede la proroga del periodo di permanenza nei centri. Tutti i migranti presenti nei centri di accoglienza, 85 mila circa, dice l’ordinanza, devono rimanere nei centri e seguire le regole. Anche i migranti che hanno perso il diritto all’accoglienza devono restare dentro le strutture. “Certo è un passo avanti – sottolinea Tareke -. Ma al periodo di permanenza dovrebbe subentrare una valida alternativa. Alternativa che non c’è. Non c’era prima, figuriamoci adesso. Fuori dai centri – continua con amarezza – c’è la fame. Molti vivono nella paura di non avere cosa mangiare. Molti non possono usufruire del bonus per mangiare. Ma dentro è ancora peggio. Stanno stipati l’uno all’altro. Il contatto fisico è inevitabile”.
In pericolo anche fuori
Molti di loro stanno a contatto anche fuori dal centro per ragioni di lavoro. In questo periodo, in alcuni posti, il lavoro è raddoppiato, come nei magazzini, per esempio, dove bisogna star dietro alla grande richiesta di merci per il panico generato dall’epidemia. Qui, si lavora gomito a gomito, in posti chiusi e stipati di merce.
E, poi, la sera quando rientrano, è ancora peggio.
La salute è un optional.
La legge Salvini impedisce a tanti immigrati di avere una tessera sanitaria e un medico di base. Li costringe a pagare i farmaci a prezzo intero
Il personale, già decimato dai tagli del decreto sicurezza, è sempre meno presente. Molti per paura hanno preso ferie. Bisogna sottolineare, tra l’altro, che buona parte del personale che opera nei centri di accoglienza non prende lo stipendio da un anno.
Dentro i Cpr
Una situazione ancora più drammatica è quella che si vive all’interno dei centri di permanenza per il rimpatrio. Un contagio all’interno di questi centri segnerebbe la fine. Molti trattenuti sono affetti da gravi patologie e hanno una forte deficienza immunitaria.
Un eventuale contagio non può essere affrontato con misure di isolamento.
I casi di positività scoppiati all’interno di questi centri, anche se passati sotto l’indifferenza, hanno messo in evidenza la fragilità di base del sistema di accoglienza.