Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalisti indipendenti

“In principio era candore”: a Noto è di scena l’arte di Silvia Berton

Lirismo e sensualità nella pittura di Silvia Berton al Palazzo Ducezio di Noto dal 5 al 30 agosto prossimi

di Redazione

Si apre mercoledì 5 agosto, con inaugurazione alle 19,30, nei Bassi di Palazzo Ducezio, a Noto, la personale di Silvia Berton dal titolo “In principio era il Candore“. La mostra, nell’ambito della Rassegna “Percorsi di NOTOrietà” patrocinata dal Comune di Noto, a cura di Vincenzo Medica / Studio Barnum contemporary, sarà visitabile tutti i giorni dalle 18 alle 23 con ingresso libero.
Di seguito l’interessante presentazione critica di Fabrizio Catalano

Silvia Berton

Nato in un sobborgo dell’area settentrionale di Londra nel 1858, vissuto nella temperie di un’epoca in cui un pittore conscio del proprio talento non poteva che oscillare fra la scomposizione impressionistica della realtà e l’attrazione – o la proiezione – verso l’allegoria e il sogno, Arthur Hacker ci ha lasciato alcune opere notevoli, che rappresentano una sorta d’anello di congiunzione fra il mondo delle accademie, quello dei preraffaelliti e quello dei simbolisti. Tra i suoi quadri, spesso sospesi fra lirismo e sensualità, uno è in maniera repentina risalito alla mia mente, quando mi sono imbattuto nei dipinti di Silvia Berton: The Girl in White. 

Sullo sfondo soffuso d’una campagna che svanisce in un’ora senza nome, avvolta in un mantello candido, con la sua pelle diafana e lo sguardo che fissa un punto indistinto oltre l’artista – e forse addirittura dentro il suo cervello – si staglia la figura di una giovane donna. Un dolore potrebbe essere acquattato, sotto quelle vesti e quell’epidermide, un’ipnosi potrebbe averla pietrificata, una visione agli altri negata potrebbe averla condotta lì, sulla soglia della nostra illuminazione: qualsiasi evento, qualunque pensiero abbia indotto la creatura a rimanere seduta di fronte a noi, senza vederci e inavvertitamente lasciandosi ammirare, avrà degli strascichi. 
Su di lei e su di noi. 
Ecco: così, traslucidi contro i loro sfondi lattescenti, lividi di lacrime ma ancora combattivi – anzi: dal dolore, nel dolore, forgiati indistruttibilmente – mi sono apparsi i personaggi di Silvia Berton. Personaggi più che soggetti; poiché, autentica o fantasticata, l’ala della verità sembra aver sbattuto sulle loro teste, prima che la luce le cristallizzasse, in ritratti intrisi d’interrogativi, nell’universo dell’artista. 

In un periplo meno inusuale di quanto non suggeriscano le apparenze, Silvia sembra aver trovato la sua via non uscendo dal labirinto ma, in un gioco di cerchi concentrici, ritornando al punto di partenza. 
L’istintiva passione per la pittura dapprima accantonata per una carriera di modella, che ha stimolato in lei curiosità per il lavoro dei fotografi, poi lo studio delle immagini e infine il viaggio dentro di esse.
Dapprincipio con una reflex fra le mani, quindi con un pennello tra le dita. 
Ed ecco dunque nascere un cosmo insieme colto ed intimo. 
Un cosmo in cui grandi temi e presenze ancestrali vengono filtrati, come è inevitabile che accada, attraverso un vissuto personale. Un cosmo in cui potremmo imbatterci in un’Eva – ritrosa, ma fino a che punto? – che quasi flirta con una pioggia di mele rosse e che forse ha addirittura la consapevolezza di quella creata da Charles Van Lerberghe nel suo lungo poema intitolato, appunto, La chanson d’Ève, che volontariamente aveva sfidato un dio che con ogni probabilità esisteva solo nella sua mente. Ci sono delle pietà, che s’ispirano ad inviolati capolavori della scultura, in cui drappi bagnati s’increspano, s’incidono e si animano in pieghe risplendenti. E ancora sabbie, solitudini, malinconie, scarlatte lusinghe e nudi nella neve; e acque, e maschere, e spettri; e il perdono. 

Ma qui siamo nel campo della fotografia. Nella pittura che oggi Silvia ci propone, il minimalismo s’accentua e ci interpella. Cosa ci vuole dire lo sguardo sfregiato della fanciulla incappucciata di rosso? Cosa c’è davvero in quegli occhi umidi e verdi stretti fra capelli e labbra roventi? E nel rapito approccio dei due amanti, prima che la bocca raggiunga il collo proteso e le dita s’intreccino? E in quel sorriso appena accennato, in quelle narici frementi, in quel capezzolo sfrontato che sembrano sfidare l’osservatore? 
Resistere. Esiste oggi ed esisterà sempre la possibilità di resistere e di ribellarsi. E le figure più decise che dolenti, risolute tanto da accantonare l’eventualità della sconfitta, paiono sussurrarci la frase incisa sul frontone del Teatro Massimo di Palermo: L’arte rinnova i popoli e ne rivela la vita. 
In principio era il candore; ma, perdendolo, abbiamo la possibilità di scegliere per noi, per le nostre esistenze, per le nostre aspirazioni, il colore che più ci piace.

Fabrizio Catalano

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