Picchi’ la musica accupa i pinseri, astuta i dulura, adduma a luci. I lacrimi n’ meci di scinniri accumuncianu a ballari e u munnu un pari chiu’ u stissu (Perché la musica rende cupi i pensieri, spegne il dolore, accende le luci. Le lacrime invece di scendete cominciano a ballare e il mondo non sembra più lo stesso). Lucida follia raccontata attraverso versi poetici che colpiscono al cuore.
Luci, ombre, colori, la musica che suona tanto forte da non lasciare spazio ai pensieri che urlano forte dentro la testa.. Un mondo ovattato quello a cui appartengono coloro i quali hanno vissuto l’esperienza dell’ospedale psichiatrico, il manicomio, il mondo della follia, come quello che abbiano conosciuto sotto altra luce attraverso i dolorosi versi di colei che è stata definita la santa folle della poesia, Alda Merini. Internata in manicomio a causa dei suoi stati depressivi, non ha mai bloccato la sua vocazione poetica che anzi, “temprata nella carne dell’anima” (metafora a lei molto cara) ci ha donato in versi l’essenza di una follia che attiene agli amori malati.
Anima inquieta la Merini, di origine milanese, così come quella di Maria Ermenegilda Fuxa, nata il 12 dicembre del 1913 ad Alia, piccolo comune in provincia di Palermo. Venne ricoverata con la diagnosi di schizofrenia e depressione in seguito al tentativo di suicidio causato dal tradimento del fidanzato che avrebbe dovuto sposare con la sorella gemella. La Real Casa dei Matti, nota ai più come Vignicella, fu il luogo in cui la Fuxa ebbe l’opportunità di rifugiarsi anche lei nella poesia, grazie alla quale ci ha condiviso con il mondo il dolore di quel doppio tradimento che ha lacerato il suo animo.
Ma tu, amuri miu, amuri beddu, cu na soru snaturata mi traristi (Ma tu, amore mio, amore bello, con una sorella snaturata mi hai tradito).
Fu un centro di cura all’avanguardia, la Vignicella, voluto dal barone Pietro Pisani per aiutare a guarire i pazienti la presunta follia non con la segregazione ma con il cosiddetto “metodo morale”. Lui stesso abitò insieme agli ospiti della sua struttura sino alla propria morte, avvenuta nel 1837, in seguito alla quale, però, la Real Casa dei Matti divenne un vero e proprio manicomio con tutte le atrocità che la storia e la cronaca ci hanno rimandato nel tempo.
È grazie a donne come la Merini e la Fuxa, non certo le uniche, che la poesia ci ha insegnato come si può rendere leggera la pesantezza del dolore.
Così come il teatro riesce a fare in modo che le storie servano da monito per il futuro.
Operazione che proverà a fare un giovane regista come Vincenzo La Lia con “Vignicella”, spettacolo ispirato proprio dalla storia di Maria Fuxa, ma anche di Giulia e dei tanti altri ospiti che hanno veramente vissuto tra quelle mura, segnati dallo stigma della follia che non era difficile colpisse chi manifestava una anche momentane fragilità. Un testo pieno di passione che ci permette di empatizzare con anime sofferte, combattute, che la vita sembra avere deciso di ignorare, ma che grazie all’arte riescono a volare alte, superando le sbarre di luoghi nei quali la colonna sonora è stata rappresentata dalle urla di dolore. In scena sabato 25 e domenica 26 maggio nella Sala Strehler del Teatro Biondo di Palermo.
«Quello che ho voluto fare con questo spettacolo – spiega il regista – è innanzitutto raccontare un luogo che tutti i palermitani conoscono, nel quale bastava una semplice depressione per finirvi ricoverati, vivendo un vero e proprio inferno, anche perché del tutto isolati dalla società. Racconto principalmente la follia che scaturisce dagli amori malati andati a male. Lo faccio attraverso storie realmente esistite, come quella di Maria Fuxa, l’Alda Merini siciliana, che degenerano a causa di conflitti romantici con i fidanzati, i genitori, l’intero nucleo familiare. C’è, per esempio una ragazza, realmente esistita, che viene ricoverata alla “Vignicella” per una depressione. Vi rimane per anni ma, quando viene dichiarata guarita e torna a casa, ovviamente sciupata, il viso corrugato, la madre non la riconosce e la caccia via. Un amore materno infranto, come del resto accadeva molto spesso in quegli anni».
Uno spettacolo,“Vignicella”, calato nella realtà anche grazie alla lingua usata. I monologhi sono, infatti, anche in siciliano, proprio per rendere la forza di un mondo interiore che fa i conti con il contesto che sta attorno a queste umanità. Uno di questi apre questo articolo immergendo immediatamente nell’atmosfera.
A scandire musicalmente la recitazione brani degli anni ’60, uno su tutti “Se telefonando” di Mina, che consentono un rapido dejavu a chi in quegli anni aveva l’età per sapere e capire cosa stava accadendo.
Una magia che sapranno regalarci gli attori in scena – Daniela Allotta, Valentina Franzone, Mariella Sasso e Paolo Vaccari – pronti a cimentarsi in una recitazione che alternerà italiano e siciliano.
«Mi piace scrivere i testi in siciliano -conclude La Lia – perché credo che la nostra lingua vada protetta e valorizzata. Lo faccio anche perché veicola in maniera ancora più forte il messaggio che proviene dall’arte, la cui responsabilità è quella di fare riflettere attraverso spettacoli che possono sembrare solo l’occasione per trascorrere qualche ora in maniera diversa dal solito. Tento sempre di raccontare la mia terra attraverso le emozioni che scaturiscono anche da una sana follia, come quella che arde nell’arte. Ovviamente devo sentire prima io tutto questo per poterlo condividere con gli spettatori».
Non resta. quindi, che prepararsi a trascorrere una serata veramente unica, grazie a uno spettacolo che saprà scandire il tempo attraverso le musiche di Salvo Trentacoste, reso ancora più magico dalle scenografie di Giovanna Grammauta.
Le foto all’interno dell’articolo sono di Salvo La Rocca
Una risposta
Un soggetto molto interessante. Immagino quanto possa riuscire emozionante e poetico il testo teatrale! Peccato non poter assistere a questo spettacolo, perché non vivo a Palermo!
Perché non filmarlo e darne così ampia diffusione?