Jeremy Corbyn è stato costretto a candidarsi come indipendente nel suo collegio di Islington North. L’ex-leader laburista era stato considerato un candidato inopportuno per il suo costante impegno a favore della causa palestinese. Corbyn era stato, infatti, accusato di antisemitismo, come ormai accade in Italia e in Europa per tutti coloro che condannano il genocidio di Israele e per quanti volessero dissentire sulla guerra in Ucraina.
La lobby ebraica da mesi spinge perché, nell’opinione pubblica, progressivamente, si produca l’associazione tra antisionismo ad antisemitismo e lavora alacremente alla persuasione che la critica al Governo Netanyahu, per l’eliminazione e la deportazione dei palestinesi, consista semplicemente in un rigurgito di antisemitismo.
Il cortocircuito della ragione
Questo vittimismo e questa autocommiserazione hanno coinvolto anche autorevoli esponenti della cultura ebraica come la senatrice Segre o la docente Di Cesare, che pure di solito esprimono posizioni progressiste e democratiche. Addirittura, Liliana Segre ha denunciato la scrittrice, ed ex diplomatica Elena Basile, per incitamento all’odio. Come sia possibile questo cortocircuito, questa interruzione, questo improvviso blackout della ragione, in qualcuno che, pur esprimendo quotidianamente una visione progressista, di fronte alla strage di un popolo, non si ponga il dovere di essere coerente e non ne tragga le dovute prese di distanza, è un mistero incomprensibile.
In realtà, vari commentatori, Elena Basile in primis, hanno ammonito di fare attenzione: “Gli ebrei di ieri sono i palestinesi di oggi”, ovvero, un popolo senza Stato che rischia di diventare, per questo, un popolo senza terra e senza diritti, quindi, individui apolidi e che possono essere perseguitati.
Le conseguenze determinate da chi nega la realtà dei fatti
Ma, se c’è un danno e un oltraggio che la comunità ebraica può provocare a se stessa, alla propria storia e ai propri morti, è proprio quello di travisare e negare la verità. Ovvero ciò che loro chiamavano negazionismo, e di schierarsi a difesa delle tecniche di sterminio e annientamento di Tel Aviv, molto simili a quelle naziste. Questa sospensione della ragione, questa assenza di empatia, è la stessa che aveva denunciato Hannah Harendt quando aveva commentato la giustificazione dell’imputato Adolf Eichmann che, durante il processo, si era ostinato a ripetere di aver solo obbedito agli ordini ricevuti.
La Arendt aveva descritto in un saggio questa ostinazione irremovibile e insensibile e lo aveva intitolato usando una perfetta locuzione che sarebbe divenuta famosa: “La banalità del male”.
Tra tutti gli orrori di questo inizio di terzo millennio questa è l’arma più pericolosa e più inquietante con cui dobbiamo misurarci. La banalità del male è tornata, potrà colpire chiunque in modo indiscriminato e senza sollevare critiche o obiezioni.
«Se la parola antisemita diventa uno strumento per colpire il ragionamento o la denuncia dei crimini israeliani essa perde significato e rischia di fomentare la rabbia contro gli ebrei» (Elena Basile, Il Giornale d’Italia, 4 luglio 2024), ma non solo. Può diventare un esperimento sull’utilizzo di alcune parole d’ordine da intendersi come linea rossa, utili per la repressione della libertà e l’inibizione della pubblica opinione, così come accadde in America con il Maccartismo.
È la solita tecnica del lavaggio del cervello, che il marketing e la propaganda attuano ripetendo ossessivamente un concetto chiave, per quanto clamorosamente falso, che gradualmente diventa verosimile e, infine, vero e indiscutibile.
La scesa in campo di un regista come Loach
Jeremy Corbyn, tuttavia, non è arretrato per la sospensione dal partito, e con lui non è arretrato Ken Loach, che è stato tra i suoi più accesi sostenitori, anche lui, colpito dall’ostracismo e allontanato dal partito. Infatti, nella sua prima dichiarazione a commento dell’esito del voto, ha definito, il nuovo Labour di Starmer, «un partito neoliberista, pronto a ogni espediente di sfruttamento che la classe dirigente può usare contro la classe lavoratrice».
E ha aggiunto: «Ciò di cui abbiamo disperatamente bisogno sono integrità e principi. Nella sfida sull’integrità tra Jeremy e Starmer, non c’è gara… Lo conosco da molti anni, mi fiderei di lui per qualsiasi cosa, è un amico meraviglioso, un compagno meraviglioso e sono orgoglioso di stare al suo fianco. La vittoria di Jeremy dimostra che possiamo anteporre integrità e principi al superficiale opportunismo».
Ma l’epurazione della sinistra radicale dal Labour nasce dalla preoccupazione di voler evitare che si potesse ripetere la sorprendente svolta antiblairiana che si ebbe con la vittoria di Jeremy Corbyn, sostenuta dai sindacati e dai movimenti sociali. Tutti i poteri forti nazionali e internazionali, compreso l’establishment blairiano del suo partito, fecero l’impossibile per far perdere le elezioni del 2019 a Jeremy Corbyn. Contro di lui, stampa e media scatenarono una campagna di propaganda micidiale. Non era tollerabile che, alla guida del Labour, ci fosse un autentico socialista.
Starmer ha normalizzato il Labour che si prepara a sostituire i conservatori al governo senza dunque cambiare nulla di sostanziale, come vedremo a breve. E per questo ha, dalla sua, i media del grande capitale. Il programma di Starmer, definito, con un eufemismo, scarno, da Loach, non impensierisce la finanza. E questa era la prima condizione della sua ammissibilità a Corte.
Che la leadership del Labour sia oggi in sintonia con Tony Blair, l’uomo delle privatizzazioni selvagge e responsabile di crimini di guerra con l’invasione dell’Iraq, è evidente. L’epurazione di Corbyn, perciò, non deve illudere e va inquadrata in uno scenario sempre più inquietante in cui, il neoliberismo europeo in crisi spinge la società e l’opinione pubblica verso destra e sdogana partiti e movimenti neonazisti, per ogni evenienza (il Reform UK di Nigel Farage è stato votato da più di 4 milioni di britannici.
In voti assoluti ha il 14,3% anche se il sistema elettorale lo ha penalizzato). D’altra parte, Starmer ha un profilo controverso, figlio di operai, è vissuto in una delle zone più ricche dell’hinterland Londinese. È presumibile che si tratti di un laburista assimilato ed educato alla ragion di Stato (il primo della sua famiglia ad andare all’Università e avvocato per i diritti civili). Infatti, le prime parole che ha detto davanti a Downing Street sono state: «Prima lo Stato e poi il Partito». Le seconde: «L’appoggio per l’Ucraina da parte della gran Bretagna è incrollabile».
Differenti andature di marcia
In Gran Bretagna la guida è a destra, e solo la corsia di marcia è a sinistra. Ovvero, difesa della tradizione e conservazione delle distanze sociali, il tutto, in salsa democratica e condita da diritti civili, prima di tutto per gli inglesi.
Quindi, la vittoria del Labour di Starmer è la vittoria di Blair, di un Labour normalizzato e sostenuto dai media del grande capitale finanziario che, in realtà, ha preso meno voti di Corbyn nel 2017, che ha vinto per il crollo dei Conservatori e grazie a un sistema elettorale che premia la concentrazione dei voti, producendo una fotografia distorta dei consensi. Ora, il Labour party è chiamato a governare una congiuntura politica economica estremamente complessa e non avrà alibi perché ha una larghissima maggioranza. Sembra, perciò, una trappola perfetta.
Domenica 7 luglio si è votato in Francia, la destra di Le Pen si oppone alla guerra in Ucraina e non vuole che la Francia sia coinvolta; Mélenchon e la sinistra sono invece per la guerra ad oltranza, si allea con Macron che ha riformato, a danno dei più poveri, il sistema pensionistico, ha tolto l’assistenza sanitaria ai sans-papier e ha appoggiato senza riserve il genocidio di Israele, accusando i contestatori di essere antisemiti. Dunque, una guida a destra su corsia di sinistra.
Le contraddizioni sembrano esplosive e il carattere ideologico della chiamata a fare muro contro sovranismo e razzismo sacrifica gli interessi e i bisogni reali, capovolge perfino le priorità sociali. È chiaro che vi sia un proletariato abbandonato a se stesso che, come in Italia, in Austria, in Grecia, in Germania e in Spagna, si rifugia nelle opzioni autoritarie di protezione e difesa che gli vengono offerte.
Ma è altrettanto chiaro che vi sia una sinistra riformista che segue gli interessi globalizzati dei mercati e che strumentalizza la paura del fascismo alle porte in cambio della digestione di politiche neoliberistiche di liquidazione del welfare. Il popolo è, dunque, preso in mezzo tra due destre. Una ideologica, nazionalista e nostalgica, l’altra, tecnocratica, imperialista e dei mercati.
Se adesso colleghiamo la situazione inglese, a quella francese, e tutte e due a quella europea, ne ricaviamo un quadro che sembra ricordare la situazione politica nella Germania degli anni ’30 del Novecento, quando, come ricorda Antonio Spinosa (“Hitler, il figlio della Germania”, Mondadori), con la “Grosse koalition”, una sorta di governo di unità nazionale che andava dai socialdemocratici alla Deutsche Volkspartei, guidata, prima dal socialdemocratico Muller, e poi dal cattolico Bruning, si pensava di avere la meglio sui partiti di estrema destra e di estrema sinistra.
L’esito elettorale, invece, registrò l’avanzata dei comunisti (dal 10,6 % al 13,1%) e dei nazionalsocialisti di Hitler che, dal nono, diventarono il secondo partito (dal 2,6% al18,3%, balzo che ricorda quello di FdI di Meloni in Italia alle ultime politiche).
Inoltre, anche in quelle elezioni del 1930, il partito socialista tedesco, proprio come ha fatto di recente il labour inglese, aveva espulso l’ala più radicale (Nsdap) per rendersi più accattivante. Le contraddizioni interne alla grande coalizione dei moderati e la mancanza di un piano per liberare la Germania dalla crisi devastante successiva alla pace di Versailles alla la crisi dell’anno prima a Wall Street (24 ottobre 1929). Crisi che aveva investito pesantemente la Germania e aveva interrotto i prestiti americani per ripagare il debito di guerra, fecero il resto, con il fallimento delle banche, l’impennata dell’inflazione e della disoccupazione.
Fu l’inizio della fine, come sappiamo; un clima di violenza travolse la Germania con aggressioni e attentati continui. Ma tutto questo, non ricorda vagamente il recente esito del voto al parlamento europeo, con la maggioranza contraddittoria tra socialisti e popolari, pur di evitare le destre, le recenti votazioni in Francia con gli accordi di desistenza, pur di battere Le Pen e, in qualche modo, l’esito elettorale in Inghilterra, con la vittoria di un Labour normalizzato? A futura memoria.
Dunque, come si porrà Starmer riguardo alla questione immigrati e al Piano Ruanda? Cosa farà riguardo all’assegno soppresso alle famiglie con almeno due figli? Come cambierà (se cambierà) la posizione inglese riguardo alla Palestina? Considerando che la sospensione di Corbyn era dovuta proprio all’appoggio di Corbyn alla causa Palestinese, non c’è niente di buono da attendersi.
Ne vedremo delle belle in Inghilterra e in Europa, a breve. Paradossalmente, sembra quasi che i conservatori, in una sorta di gioco di ruolo, abbiano cercato la sconfitta per sottrarsi al crescendo di situazioni impopolari che attendono la Gran Bretagna.
Mai un leader di partito sconfitto è sembrato più sportivo e pronto a riconoscere la sconfitta come Rishi Sunak. Quasi si sentisse sollevato nel doversi fare da parte, non prima che da buon ex immigrato indiano aveva portato a termine l’accordo più cinico, sin dai tempi del nazismo, di deportazione degli immigrati irregolari in Ruanda.
Ma è noto che siano di solito i capipartito della periferia, i figli degli immigrati e i riformisti che, nelle fasi di crisi, chiamati al governo, debbano sdebitarsi accettando di fare il lavoro sporco. Ovvero, far digerire scelte impopolari che i conservatori non potrebbero attuare senza sollevare proteste violente e destabilizzanti. È quello che ha fatto Biden in politica estera, come a suo tempo fece Blair in Inghilterra e Renzi in Italia.
Naturalmente, questo ha un prezzo. Quello di essere delegittimati dalla volontà popolare, incrementare l’astensionismo e rafforzare le spinte populiste e xenofobe di un proletariato declassato e senza più garanzie. Proletariato che, constatando la sinistra distante e alleata con l’establishment, cerca il riscatto con soluzioni autoritarie o sovraniste. Questo contro, non gli interessi finanziari e delle multinazionali, ma gli stranieri di turno, i veri nemici, quelli che vivono da schiavi nelle campagne al soldo del caporalato, capaci perfino di determinare una “sostituzione etnica”.
Ciò che gli europei poveri, come sempre, non vedono è che, questo, è soprattutto il sogno del capitale che, di fronte alla crisi, ha bisogno di mani libere e di procedure semplificate. Per il bene della Patria, naturalmente.
Nel frattempo, il romantico Corbyn spera ancora, e ringrazia
«Il futuro di cui parliamo non è un sogno impossibile – la nostra comunità è la prova che un mondo più gentile e più giusto sia possibile». (#JeremyCorbyn Peace and Justice Project).
Noi speriamo, invece, di non essere, al ritorno della storia di un secolo fa.