Siamo tra i Paesi con il livello di manutenzione più scarso e tra quelli che hanno consumato il territorio nel modo più intensivo e indiscriminato. L’edilizia privata e le opere pubbliche più devastanti sono state le uniche fabbriche del centro-sud. Basta osservare la cementificazione delle colline, l’occupazione delle aree demaniali, gli argini cementificati di qualunque corso d’acqua, l’edificazione in aree sismiche, per capire che non v‘è mai stata una cultura del patrimonio pubblico e, quindi, uno Stato degno di questo nome. La soluzione classica italiana è di scaricare sui cittadini il rischio e il costo del dissesto con le assicurazioni obbligatorie dei proprietari di immobili.
Le conseguenze di un Paese che vive di emergenze continue, tra incendi dolosi, per favorire i lavori di rimboschimento o per trasformare aree protette ad aree edificabili, alluvioni, inondazioni e straripamenti di fiumi, sono valutabili in miliardi di danni materiali e in migliaia di vittime l’anno.
Ma, come è noto, c’è una economia fiorente, che vive di speculazioni edilizie e di cementificazioni selvagge, e ce n’è un’altra, altrettanto redditizia, che vive dei disastri e dei terremoti, la stessa che si attiva nella ricostruzione del dopoguerra.
Un esempio emblematico di come funzionino le cose lo possiamo trarre dal caso de “L’Aquila”
Da un’inchiesta della Dda denominata “Lypas“, riguardante infiltrazioni mafiose nella ricostruzione privata post terremoto, si è scoperto che imprenditori legati alla ‘ndrangheta erano collegati ad aziende di costruzione con appalti milionari per la ricostruzione privata, soprattutto quella legata al recupero delle case più danneggiate, quelle classificate E.
Queste tipologie di commesse sono di solito particolarmente appetite dalle organizzazioni criminali anche perché il finanziamento è considerato un indennizzo e non un contributo; infatti, non sono previste gare d’appalto, quindi l’incarico può essere affidato direttamente dai condomini, attraverso il pronunciamento delle assemblee condominiali, e senza particolari reti di controllo, tanto che le aziende prescelte non devono neppure presentare il certificato antimafia.
Prima di questa operazione, sempre nell’ambito della ricostruzione privata, più volte la magistratura aquilana aveva lanciato allarmi e denunciato il far west, la carenza di controlli e la guerra tra aziende in atto intorno a queste milionarie commesse. Altre inchieste – ancora in corso – erano state avviate subito dopo il terremoto per alzare il livello di attenzione sulla infiltrazioni mafiose nel cantiere più grande d’Europa. In particolare, anche in seguito ai rilievi sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta emersi all’Aquila, c’è stata anche l’operazione “Alta Tensione” della Procura di Reggio Calabria, che aveva portato all’arresto di numerose persone, tra cui il boss Santo Giovanni Caridi, sul conto del quale, tra l’altro, sono emersi collegamenti con società aquilane impegnate nella ricostruzione.
Ma, prima del terremoto, alcune altre inchieste avevano accertato che molte opere pubbliche, tra cui l’università, erano state realizzate da consorzi con imprese siciliane riconducibili a Cosa Nostra. Quando il terremoto sbriciolò la casa dello studente con decine di vittime, si scoprì, ovviamente, che i materiali utilizzati erano di pessima qualità.
L’Aquila è solo un esempio, potremmo elencare decine, e forse centinaia, di casi simili
Naturalmente, un fondo per la manutenzione, la prevenzione, la messa a norma, al di là delle dichiarazioni di facciata, sarebbe troppo costoso e sostanzialmente insostenibile.
Quindi, la novità di questi giorni è che questa messa in sicurezza se la devono pagare i privati proprietari di case con delle assicurazioni. Dopo l’ennesima alluvione in Emilia-Romagna e nelle Marche, infatti, è spuntata l’ipotesi di un provvedimento del Governo per obbligare all’assicurazione i proprietari. Dietro questa proposta di rendere obbligatoria l’assicurazione, c’è un report dell’Ania (Associazione Nazionale delle Imprese di Assicurazione) che, a supporto di questo Eldorado a lungo agognato, si sottolinea come “sono ancora poco numerose le famiglie che scelgono di stipulare una polizza casa che preveda la copertura per il rischio di calamità naturali nonostante il 75% delle abitazioni italiane sia esposto al verificarsi di un evento di questo tipo, poco più del 3% sarebbe coperto da una polizza specifica”.
Ma non solo: secondo il report, reso pubblico dall’ associazione, la distribuzione percentuale delle abitazioni (così come vengono rilevate dall’ISTAT) evidenzia un’elevata concentrazione proprio nelle zone classificate ad alto rischio. In particolare, per quanto riguarda il rischio sismico, risulta che circa il 37% delle abitazioni civili è situato nelle zone a più alta pericolosità; questa percentuale sale poi a quasi il 50% quando si considera il rischio alluvionale. Peraltro, dai dati elaborati dall’associazione, risulta che il 75% delle stesse abitazioni è esposto ad almeno uno dei due rischi analizzati a causa dell’estrema vulnerabilità del nostro territorio.
Sempre secondo questo rapporto, al 31 marzo di quest’anno sarebbero state attivate circa 826 mila polizze con l’estensione alle catastrofi naturali, ottenute come somma delle polizze con la copertura del solo rischio terremoto (458 mila), del rischio alluvione (196 mila) e di entrambe le calamità (172 mila – sul totale delle abitazioni censite da ISTAT che ammontano a 31,2 milioni).
Rispetto a quanto rilevato nel settembre del 2018, il numero di assicurazioni che presentano un’estensione al solo rischio terremoto sono più che raddoppiate (141%), mentre quelle che hanno la copertura per entrambi i rischi alluvione e terremoto sono quasi triplicate (175%); la diffusione di queste polizze è tuttavia ancora molto contenuta ed è pari al 3,2% (era il 2,5% nel 2018 e il 2,0% nel 2016). Il lieve aumento di questa percentuale evidenzia come stia crescendo la consapevolezza dei privati circa la necessità di proteggersi dai rischi.
Le unità abitative coperte da assicurazioni riproducono la frattura tra nord e sud del paese
La maggior parte di esse, infatti, sono situate nel Nord Italia e in Lombardia, dove si concentra quasi il 30% del totale; circa il 10% è situato in Veneto, in Piemonte e in Emilia-Romagna, mentre poco oltre l’8% in Toscana. Tra il 4% e il 5% delle abitazioni assicurate si ritrovano, invece, in Trentino-Alto Adige e in Liguria, mentre non si supera il 2% in Friuli-Venezia Giulia. Per quanto riguarda il Centro-Sud, il Lazio è la regione dove si concentrano maggiormente le abitazioni assicurate, anche se la percentuale è appena superiore al 7%.
Se si esclude poi la Campania con il 3,5%, in tutte le altre regioni del Sud, la presenza di abitazioni con relative assicurazioni non supera quasi mai l’1%, ad eccezione della Puglia e della Sicilia, dove mediamente si arriva al 2%.
Quindi, in conclusione, uno Stato permissivo, usiamo qui un eufemismo, ha consentito per decenni ogni forma di lottizzazione selvaggia, cementificazione e speculazione edilizia, in deroga a tutti i piani paesaggistici o di rischio idro-geologico, e nonostante gli studi di settore, le proteste o l’opposizione di associazioni ambientaliste, favorendo in molti casi, con l’assenza di gare per il subappalto o l’assenza di controlli, l’infiltrazione della criminalità organizzata. Poi si è scoperto il business della Shock economy con la ricostruzione che, anche in questo caso, ha attirato gli appetiti più spregiudicati che avevano capitali da riciclare necessari per le anticipazioni, infine, il business delle assicurazioni che, se rese obbligatorie, graverebbero sui singoli cittadini. Uno Stato modello, sarebbe da dire, e qui non è un eufemismo, ma la descrizione di un effettivo modello di iper-liberismo in cui lo Stato si limita ad avallare, senza ostacolare, gli interessi più speculatori per poi obbligare le vittime a pagare il conto.