La scomparsa improvvisa, avvenuta lo scorso 19 giugno, di James Gandolfini ci priva di uno dei più limpidi esempi di caratterista “incontenibile”, cioè di uno di quei volti che, per quanto si provi a relegarli sul fondo dell’inquadratura, emergono comunque, con la prepotenza – sovente involontaria – del talento.
di Massimo Arciresi
Non che Gandolfini, di origini chiaramente italiane (e la sorte ha voluto che si spegnesse ad appena 51 anni per un infarto a Roma poco prima di partecipare al Festival di Taormina), non fosse mai stato protagonista: a parte la popolarissima (e – sarebbe il caso di soffermarcisi – discutibile) serie TV I Soprano (durata sei stagioni a partire dal 1999), nella quale vestiva i panni del personaggio principale (un boss che applica i suoi metodi alla vita quotidiana), basterebbe citare il volutamente scomposto musical di John Turturro Romance & Cigarettes, nel quale interpreta un uomo posto di fronte a una scelta sentimentale. Tuttavia, sembra che il cinema abbia tentato (invano) di tenerlo ai margini anche dopo l’acquisita notorietà. D’accordo, James era una figura ingombrante, non solo fisicamente, e il suo spazio se lo ritagliava comunque, probabilmente con la complicità di registi e produttori consapevoli del suo potenziale, frutto oltretutto di una robusta gavetta. Ma quell’imponente supporter, la cui aria leggermente bonaria non gli evitava i ruoli da malavitoso italo-americano, avrebbe comunque meritato di più, e magari il tempo lo avrebbe premiato con parti più complesse e sfaccettate, come accaduto – tanto per dire – a colleghi del calibro di Philip Seymour Hoffman e Richard Jenkins, e le sue doti sarebbero state definitivamente messe in risalto.
A ogni modo, il patrimonio filmico che ci lascia il nostro non è esiguo. Il caracollante The Mexican, nel quale inseguiva Brad Pitt (che ha di recente rincontrato nel sottovalutato Cogan – Killing Them Softly) e Julia Roberts, è stata la prima pellicola a metterlo maggiormente in risalto quando era già un divo televisivo, sebbene avesse già recitato per Tony Scott (Una vita al massimo, Allarme rosso), Barry Sonnenfeld (Get Shorty, ulteriore incontro con il grande Gene Hackman), Sidney Lumet (Prove apparenti). Era il 2001, lo stesso anno in cui apostrofava Billy Bob Thornton («Ma che razza di uomo sei tu?») nello splendido L’uomo che non c’era dei Coen e, da responsabile di un carcere militare, affrontava – prima con ammirazione, poi con invidia – il graduato recluso Robert Redford ne Il castello. Il premiato sceneggiatore Steven Zaillian lo ha voluto in due delle sue rare incursioni dietro la macchina da presa (A Civil Action e Tutti gli uomini del re), Scott ha avuto ancora bisogno di lui in Pelham 1 2 3 – Ostaggi in metropolitana e Kathryn Bigelow gli ha affidato la breve ma incisiva parte del direttore della CIA nel possente Zero Dark Thirty. È stato l’inventore del reality show nel sapido TV-movie Cinéma Verité, lo vedremo presto nella commedia illusionistica The Incredible Burt Wonderstone al fianco di Carell, Buscemi e Carrey, mentre l’altro paio di lavori che è arrivato a completare chissà se ce lo faranno mai vedere (si andrebbe ad aggiungere a opere senz’altro interessanti già negateci dalla distribuzione quali In the Loop e Violet & Daisy). Però per James Gandolfini vale la regola vigente per tutti gli attori che alla fine contano davvero: la sua professionalità, fissata nei fotogrammi che ha abitato, rimarrà saldamente impressa pure nel nostro immaginario.