Una bella sorpresa che, indirettamente, sancisce il buon livello ormai raggiunto dall’animazione digitale in Europa e che merita un efficace passaparola.
di Massimo Arciresi
Il grande orso batte bandiera danese, ha l’aspetto di una fiaba moderna (con i suoi luoghi proibiti e i suoi orchi) ma può vantare contenuti nobili e pregnanti (non solo per il pubblico infantile), paragonabili a quelli esibiti (tanto per citare un esempio di cartoon ingiustamente dimenticato) da Il gigante di ferro (1999). Se nel lavoro di Brad Bird si prendeva di mira la stolta corsa agli armamenti, in questo, diretto con limpidezza da Esben Toft Jacobsen, al centro della vicenda troviamo, più poeticamente, la natura da preservare, rappresentata dall’orso del titolo, un innocuo plantigrado formato Mazinga sulla cui schiena spuntano spontaneamente abeti e selci (caratteristiche delle quali nessuno dei personaggi umani, significativamente, si stupisce).
L’immenso animale vive all’interno di una foresta e vi si mimetizza grazie alla sua schiena “boschiva”. Lo trova la piccola Sofia ed
entra subito in sintonia con lui; il fratello maggiore Jonathan, leggermente proiettato verso l’età adulta, ci mette un po’ di più, ma presto contribuisce a sua volta alla salvaguardia di questo simbolo ecologico, minacciato da un tenace cacciatore, infuriato a causa della distruzione del suo villaggio (abusivo), eretto – poco prima che si risvegliasse – proprio dove il pacifico bestione era in letargo.
I tenui riferimenti a qualche classico disneyano passano in subordine grazie alla gustosa presenza di inesauste alci miniaturizzate, rane meteorologiche e corvi curiosi. Un corollario di figure che non annoia e senz’altro mette in ombra i bambini, il loro bonario nonno che vive circondato dal verde e il vendicativo bracconiere. Tuttavia, basterebbe anche soltanto la magnifica possanza dell’orso, curato in ogni pixel, dal cavernoso muso al folto pelo, a giustificare la visione.