Aziza, la grande collettiva allestita allo spazio Zac, simbolo dell’agognata rinascita dei Cantieri Culturali
di Salvo Ferlito*
Fantasia, gestualità, impellenza espressiva, meticolosità progettuale: sono questi i caratteri salienti alla base dell’ideare ed agire artistici dei partecipanti ad Aziza, la grande collettiva visibile (fino al 17 novembre) allo spazio Zac dei Cantieri Culturali alla Zisa. Un’ampia e articolata miscellanea di linguaggi, tecniche e stilemi, che si rivela di notevole interesse proprio perché in grado di offrire non pochi spunti di riflessione sullo stato delle arti visuali nella nostra isola e più in generale perché capace di fungere da valido osservatorio sulle tendenze in atto nell’articolato panorama della contemporaneità.
Figurazione classica e derive astrattiste, suggestioni graffitistiche da “street art” e impianti compositivi meno convulsi, gusto per la contaminazione e più rigorosa sobrietà si alternano e susseguono nelle molteplici opere in esposizione, dando la misura chiara e intellegibile della multivettorialità di cui è preda – tanto nel bene quanto nel male – la produzione artistica più attuale. Non importa, però, che si registrino variazioni di qualità (anche notevoli) nelle numerose opere in esposizione; non importa, in quanto questo è un dato riscontrabile in ogni grande mostra collettiva (ed anche in tanti allestimenti museali d’arte contemporanea), costituendone – in definitiva – un aspetto del tutto abituale e quasi “fisiologico”.
Quel che conta, piuttosto, è la capacità di rappresentare appieno lo spirito del tempo, di farsi portavoce delle aspettative, delle istanze, dei timori e delle ubbie albergati nel corpo sociale, di veicolare al contempo segni patognomonici e sintomi conclamati di uno stato generale di tensione e di disagio, di esercitare – in parole povere – quel ruolo di medium analitico e predittivo, di efficace e impareggiabile scandaglio, che è (o quanto meno dovrebbe essere) il connotato prioritario e distintivo di ogni variegato ensemble di opere d’arte. In tal senso Aziza coglie bene nel segno; e ciò che più convince è che lo fa senza ricorrere a stars o a protagonisti di particolare rinomanza, ma facendo leva su una nutrita pattuglia di giovani artisti siciliani (i più “anziani” sono quarantenni), a dimostrazione di come una mostra di arti visive possa essere di valido interesse anche in assenza di vedettes e in un regime di costi morigerato e contenuto. A tal proposito va detto che il titolo prescelto appare del tutto congruo ed azzeccato; e questo non solo per la contiguità con lo splendido “solatio regio” della Zisa, ma in special modo per quell’idea (tutta insulare) dello azizare (termine vernacolare derivante propriamente dall’arabo aziz, che non per nulla vuol dire splendido, nobile), cioè dell’aggiustare e dell’adattare al meglio (rendendo esteticamente apprezzabile quanto per sua natura non lo è), cui è improntata l’idea guida sottesa all’intera esposizione (e storicamente all’arte d’arrangiarsi di tanti siciliani).
Non è un caso, quindi, che molte delle installazioni presenti nell’allestimento contengano e inglobino frammenti e pezzi di risulta provenienti dallo stato di abbandono e di disfacimento cui i vari spazi dell’intera area erano andati incontro irreversibilmente (e colpevolmente) nel corso dei decenni; e ciò come a voler configurare simbolicamente – per via immaginifica – quella volontà di recupero pieno e di ritorno a un pertinente uso e ad una mirata fruizione dell’intero complesso dei Cantieri che è (ed era già in passato) uno degli obiettivi dichiarati della giunta Orlando. Tuttavia questi apprezzabilissimi intenti dovrebbero essere perseguiti cercando di evitare di cadere (e ricadere) in stucchevoli e improduttivi elitarismi. Immaginare, infatti, di trasformare questa grande area della città in una sorta di “sacrario culturale”, in un insieme di “templi” e “tempietti” delle arti visuali contemporanee (da affidare ad una ristretta cerchia di vestali e ierofanti di sicura e provata fedeltà), senza prendere in considerazione la necessità di inserire dei luoghi di aggregazione dedicati al tempo libero ed anche al divertimento (un po’ sul modello del Gay Pride), significherebbe soltanto realizzare l’ennesima (e inutile) “cattedrale nel deserto”, aperta ai pochi e abituali frequentatori delle mostre (e delle manifestazioni culturali), ma del tutto staccata dal tessuto sociale cittadino e scarsamente produttiva dal punto di vista culturale (e in fondo anche economico).
Un errore cui facilmente si potrebbe incorrere se si pensasse unicamente al giudizio di certa stampa solidale o all’attenzione suscitata in quella estera (lusinghe, sia consentito dirlo, cui il nostro sindaco è facilmente soggetto) e se si affidasse – per così dire “chiavi in mano” – la gestione dell’intero complesso alla solita “lobby” (“fare lobby” è l’espressione, absit iniura verbis, usata in passato dallo stesso Orlando, in presenza di non pochi astanti, per spiegare la capacità di alcuni operatori culturali di porsi in evidenza ai suoi occhi) e non si compendiasse la possibilità di allargare l’utilizzo ai tanti validi operatori – artisti, critici, organizzatori vari – che non appartengono (né vogliono appartenere) ad alcuna cerchia elitaria, ma che da anni (spesso in assoluta solitudine, con pochissimi mezzi e fra mille difficoltà) portano avanti (o tentano di farlo) le proprie idee e i propri progetti.
La mostra potrà essere vista giornalmente, dal martedì alla domenica, con orario continuato dalle 9,30 alle 18,30.
*critico d’arte