Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalisti indipendenti

Vólto, aforisma, tremito

di Redazione

 

Oltre 500 versi in sei scansioni avvolte da un prologo e da un epilogo, consegnata nella diversa morfologia metrica di Giovanni Occhipinti

di Aldo Gerbino

V’è alito di melologo in tale poematica texture, consegnata nella diversa morfologia metrica di Giovanni Occhipinti; una valenza del discorso, in questa Elegia del frammento, antiframmentaria, agitata da uno spartito in cui essa si iscrive, nel pieno d’una fluidità primaria alle umane essenze, mosse, e promosse, da quel dolore già registrato in tutto l’arco creativo di Giovanni, per quel suo soffrire e rovistare nello spessore del ‘dire’. Un dire di sé, e d’altri, privato da ogni disartria: un racconto e un dire ri-versato sul prossimo, preoccupato, nel fondo della sua stessa riflessione, della mancanza di àgalma (da Kerényi interpretata quale “gioia di Dio”). Ma, soprattutto, un ‘dire’ di Colui che sovrasta cuore e menti, e di cui egli avverte e trascrive profondità di respiro, tatto ineguale e incerto, sensi assorti nelle interrogazioni, sconfortante vacuità di risposte alle domande emerse dall’esistere che ci governa. E ancora quel tentare di leggere il nucleo incandescente di vita e morte, l’arcana circolarità che tutto avvolge e coinvolge.

Ora la vocazione, sospinta dal frammento di vita e storia dell’uomo, pur non legata alla segmentale onda del racconto in versi e nulla lasciando al singhiozzo vocale, si proietta, invece, nello statuto del melos, tracciando, con Giovanni, quel necessario percorso di ansia penosa. Sono, dunque, i migranti, il nomadismo acceso dei bisognosi, di quanti fuggono arroganza e superbia del prossimo, di quanti subiscono la brutalità di una insostenibile violenza maturata nei territori d’un Sud sempre più compromesso, e che tutto nega, in un filo conduttore che lega anime e storie e popoli diversi; così leggiamo nella scrittura dei nostri migranti, registrata, in termini celliniani, “boscherecci”, da semianalfabeti, in La spartenza di Tommaso Bordonaro (1991) o nella Terra matta di Vincenzo Rabito (2007). Da questo Sud emergono, ora, le inequivocabili tracce “interrrate” di orme migratorie a tradire l’ingresso in un futuro temibile dopo l’attraversamento dalla translucida quanto atroce lingua di mare. Essa porta con sé, ancora, le acque tormentate dei lotofagi: non è stato il viaggio ad Itaca alla ricerca di un ristoratore ‘nostos’, ma fuga da un Ellesponto tragico e feroce. E sul commercio, crudelissimo, di chi sfrutta tali corpi vagoli, nell’altalenante gorgo sottomesso al fuoco, ecco l’imbarcazione di Caronte con i suoi rinnovati occhi di fiele, pronti ad annichilire le membra di quanti anelano un lavoro, già preparati a trascinarli nel giogo della prostituzione, nel disperante dissidio tra edificazione e dissolvimento.

E, in tale dissidio, ecco le ombre d’isole che appaiono e scompaiono all’orizzonte geologico e storico dell’occhio e della mente: il mare di Malta o le spiagge laminari di Lampedusa. Qui le onde sembrano navigare, scivolare, per altre interminabili onde, rullare sotto il ventre fragile delle imbarcazioni, in quella enorme “placenta del mare” già espressa da Occhipinti in un precedente lavoro poetico e in cui l’acqua e gli abitatori di essa si mostrano quali umori primari, amniotiche certezze (L’acqua e il sogno e Dalla placenta del mare, 2000; Sinfonia per conchiglia, 2002).

Ora il verso si fa vólto sinestesico di una realtà messa sempre a confronto con l’accetta del tempo, con l’accumulo rapidissimo, inesorabile, degli eventi condannati a scorrere verso agre soluzioni. Così, anche nella disposizione con quelle pause e scansioni collocate da Giovanni tra simboliche trame e pellicole post-futuriste, emerge questa polifonia di accenti, d’impietosi contatti. L’acqua è l’onda che travolge e sospinge, che «travolge e sommerge». Le parole digradano sul foglio come a indicare una precisa e inequivocabile posizione spaziale, geografica, in un modulare, plasticamente, il diagramma stesso del globo.

Proprio su di esso si configura l’orrore della dispersione, del ‘relitto’, dei troppi relitti che tappezzano col sangue la storia dell’uomo e quella d’un Mediterraneo solcato da drappi continui di speranze, da carni dissolte, da sentimenti dispersi nel calore impervio del sole accecante, nel freddo abissale dei fondali o nel buio della dimenticanza. «Noi qui ancora, scheggia impazzita del continente / africano, nei cataclismi del mondo a guardare / l’Europa dal biblico Mediterraneo… », si dice; sì, noi, «amalgama di genti» siamo ormai prossimi all’inerzia, votati alla sconfitta, toccati dal marchio d’una povertà troppo umiliante, resa materia di scambio. E l’invocazione si offre urgente, necessaria: «Oh come vorremmo riconoscerci finalmente in Te, / Dio! In Te, oggi che il mare si placa si chiude / sulle vittime sacrificali, si distende sulla / plaga di rena» verso quel «rinnovato mistero / dell’esserci».

Ora il migrante trascina con sé il sapore del deserto, la storia della sabbia che intride con nuova sabbia quella dei ‘macconi’ delle spiagge iblee, o narra del sangue animale versato dai bracconieri, delle trasformazioni biologiche e morali sotto i bagliori sinistri delle serre, in un grido ecologista fuor dalla retorica, per farsi intima riflessione, immalinconita necessità del comprendere, e assolvere al bisogno tutto umano d’intendere, decifrare le anime che ci attorniano. Eccoli, come in certe opere di Giovanni Iudice (vale per tutte la toccante Immagine del 2006), a ripetere con altre, ma pur sempre eterne ferite e piaghe, le stesse terre in cui: «Sbarcavano coloni nella terra malarica / dell’Ippari, sul mare di Kamarina / ed erano un’insidia le rapide / incursioni di vascelli saraceni / sfuggiti ai controlli delle torri… ». Di essi rimangono tracce, frammenti di laminette in piombo, «epigrafie misteriose… corrose incisioni / puniche nella grotta antica, già ritrovo / di fenici.» In tali ‘frammenti’, in tali scorci dogliosi e tragici Giovanni Occhipinti si rispecchia, trasborda la sua anima in quella del ‘fratello’. «Io sono te», narra, «la tua persona, / la tua pena la tua mente / incisa nella pietra… ».

Per tali tracce si snodano voci, canti, echi: dall’eremo, dal mare in un palpitare di storie, di piagate parole vorticanti nell’aria acronica del mondo, nell’infinità incommensurabile degli spazi a narrare straziate storie di corpi dispersi, morti per acqua, morti per mano assassina, morti per ogni possibile stupro di carni e mente. Una «liturgia del dolore» che «deflagra» in quel «delirio polifonico della Terra», a futura memoria, quasi a riscriverne l’incancellabile registro della sconfitta. Uomo che segna, in quel sincretismo culturale e antropologico d’intellegibile ricchezza, l’accumulo di vicende, fatti, parole e scrittura di questo polimorfo continente siciliano, auspicando e alimentando quella ‘identità plurale’ da ricercare nella divina impronta, nell’abbraccio protettivo della «simiglianza». In ogni tempo è l’ampia lastra tombale del mare a raccogliere i naufraghi, a chiudere i loro occhi aperti verso il nulla. Anche nella tragicità di tale epilogo umano, la necessità del suono, di ricostruire e segnare uno specifico paesaggio sonoro si fa pressante in Occhipinti; ed ecco apparire corde, musicali strumenti, frammenti vacui di voci lambenti la superficie delle acque, in quel «murmure dei secoli» concentrato in esistenze primitive, in solitari fossili zanellianamente interrogati nel labirinto della vita e della morte, e qui per far rigenerare parole e lingua dei morti in un indefinibile ‘antico lamento del Tempo’, in quell’attonito scoramento (altro tema caro a Zanella) di fronte alla possanza del cosmo . Suono, sonorità, pause, ritmi cangianti, pieghe tenaci delle parole, silenzi, scandiscono, appunto, quel melologo propendere di cui s’è fatto cenno, quell’urgenza poetica a raccordare il ventaglio sonoro, vaganti note musicali, votate alla memoria degli uomini sconfitti da uomini. Un canto, infine, trasformato in una sciabordante nenia raccolta tra bivalvi e brachiopodi: silenzi ampliati dall’appartenenza, dalle mutazioni linguistiche e genetiche, nella investigazione di un possibile congegno che serva ad indagare l’anima, alla ricerca annaspante di Dio. Egli, «vecchio orologiaio dell’Universo», sembra porsi «fuori dalla scienza», «Iddio del mistero», e, dunque si chiede Giovanni: «A quale Dio votarsi se poni a Tuo / scudo il caso e Ti celi nell’astratto / concetto» che oltrepassa la comprensione dell’uomo? Eppure è il suo Vólto ad apparire, ultimo approdo, quando l’abisso s’apre ai migranti: vólto, aforisma, tremito.

 

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