Ormai da molti anni, le sale cinematografiche sono in crisi e chiudono i battenti. Perché? Ne parliamo con Paolo Greco, fondatore della scomparsa sala d’essai Lubitsch a Bonagia
di Fabio Vento
Da alcuni anni le sale cinema sono in crisi. A Palermo forse più che altrove. Sorprende il conto delle “vittime” degli ultimi cinque anni: Jolly, Tiffany, Adams, Astoria, e ancora Lubitsch, Ciak, Finocchiaro, passando per Royal, Dante e Fiamma. Istituzioni, a volte anche decennali, che hanno animato i sogni di intere generazioni, strozzate dal progressivo assottigliarsi del pubblico. Fino a cedere nel triste gioco del pareggio dei conti. Qualcuna di esse si è riconvertita in teatro, la maggior parte ha chiuso i battenti, forse per sempre. Sopravvivono quasi esclusivamente i multisala, che siano nati da “accorpamenti” improvvisati o costruiti ex novo, sempre più ai margini della città. Come ha potuto un “luogo” tanto prezioso nella coscienza collettiva, qual è il cinema, scadere a tal punto nel favore dei cittadini? Per Paolo Greco, fondatore della scomparsa sala d’essai Lubitsch a Bonagia, è la spia del graduale incrinarsi del ruolo del cinema nella nostra società, nel nostro desiderio, nel nostro più profondo immaginario, che ha origini lontane e che, nella specificità del contesto palermitano, è ancor più gravido di conseguenze. Ne parliamo con lo stesso fondatore della sala scomparsa.
Anche a Palermo i cinema boccheggiano, nonostante le sale siano all’avanguardia per tecnologia e nonostante le tante formule promozionali, contrapposte a quello che un tempo era il monolitico “biglietto intero”. E’ uno dei tanti rivoli della crisi economica che attanaglia il nostro Paese, o le cause sono più complesse e profonde?
Certamente le cause sono più complesse e profonde e vanno ben al di là della situazione palermitana. Direi anzi che questo sia l’ultimo tassello, forse il più evidente, di una “crisi del cinema” che si dipana ormai da parecchi anni. Una crisi del media cinema come prodotto immaginativo, culturale e sociale. Mi piace ricordare una delle scene più belle di “Nuovo Cinema Paradiso” di Giuseppe Tornatore: siamo negli anni ’40 e nel cinema di Giancaldo, piccolo paese siciliano, si proietta una prima visione. C’è un’intera popolazione, c’è tutta una società dentro quel cinema, che si osserva, che vive, che cresce insieme. C’è il gruppo di amici inseparabili, c’è il giovane aitante che cerca di far colpo su una donna, c’è la famiglia con i bambini. In quelle vite umili, segnate dalla fatica di ogni giorno, le immagini del cinema, il cinema stesso come luogo fisico, assumono un che di mitologico. Aprono le porte del sogno, dell’immaginazione. Il cinema è una sorta di rito collettivo che plasma il senso dello stare insieme. Così è stato anche, per molto tempo, nelle città. Nella seconda metà del Novecento queste erano divise in borgate, vere e proprie comunità dove l’individuo, nel bene e nel male, si rispecchiava in modo immediato. Le piazze, i bar erano luoghi di aggregazione, e così ovviamente anche il cinematografo: ogni quartiere aveva il suo. Dopo la guerra, era forte il desiderio di ricostruire, materialmente e umanamente: il cinema, con i suoi racconti, con le sue immagini, con le sue star internazionali, parlava ad ogni fascia sociale. Aiutava a lenire le sofferenze, insegnava a sperare nel riscatto, istruiva all’impegno civile.
Oggi tutto questo è finito. Le borgate, come centri solidi e aggregativi, non esistono più da tempo: c’è la città nel suo complesso, grande contenitore dove l’identità del singolo si disperde. Non c’è più una dimensione sociale del territorio che nel cinema, come altrove, possa rispecchiarsi in modo diretto. Ma, quel che è peggio, è venuto meno il mito del cinema come luogo d’elezione dell’immagine. Oggi l’immagine cinematografica non è più strettamente legata ai luoghi e ai tempi del cinema, non corteggia più il nostro desiderio da una dimensione ‘lontana’ e privilegiata. Al contrario, grazie alle tecnologie digitali, è indefinitamente disponibile, indefinitamente replicabile, indefinitamente manipolabile. Anzi, canali come YouTube continuano a propugnare il mito per cui chiunque possa diventare con facilità ‘costruttore di immagini’. In un presente in cui le grandi case di produzione regalano di continuo al pubblico effetti e ambientazioni fantastiche, curate fin nei minimi dettagli, sono venute meno la capacità e la spinta a ricercare il sogno e lo stupore. Non stupisce allora che all’esperienza ‘immersiva’ del cinema, che implica il pagamento di un biglietto, in tanti preferiscano il piccolo schermo del computer o del televisore.
In questo stato di crisi culturale e commerciale del cinematografo, pare sia quella del multisala l’unica via percorribile. In questa forma si sono riconvertiti alcuni dei cinema superstiti di Palermo. E anche qui inizia a intravedersi una nuova strategia, già esistente in altre città: il multiplex annesso al centro commerciale, rigorosamente in periferia. Com’è il caso dell’UCI Cinemas, parte del centro Forum, o del multisala in costruzione a Partanna Mondello, che insisterà sullo stesso territorio del Conca d’Oro.
Quella del multisala, in sé, è semplicemente una strategia commerciale che consente di praticare economia di scala, diversificando l’offerta: grazie a questo, più di un cinema è riuscito a reggere il peso della crisi. Preoccupa di certo la formula del cinematografo come ‘appendice’ del centro commerciale, che pare farsi strada anche a Palermo: è forse l’ultimo tassello del declino del cinema come luogo fisico e anche come media. Penso alla famiglia che decide di trascorrere un pomeriggio al centro commerciale: il padre visiterà il negozio di tecnologia, la madre il negozio di abbigliamento e i figli andranno al cinema: quasi fosse anche questa una forma di shopping. Dopotutto basta dare un’occhiata alla programmazione dell’UCI per rendersi conto di come, in generale, prevalga il dato commerciale, il puro intrattenimento.
La sparizione dei cinema cittadini impoverisce i quartieri, che sono osteggiati nella possibilità di esprimere presidi culturali non subordinati alla polarità del centro città. Ne va di mezzo anche il rapporto, mai abbastanza esaltato, fra cinema e formazione: sono ormai lontani i tempi in cui si andava ‘al cinema con la scuola’, raggiungendo a piedi il cinematografo più vicino.
Il cinema è un presidio culturale prezioso e per molti versi insostituibile per il quartiere in cui ricade. Dell’epoca del Lubitsch non posso che ricordare le tante collaborazioni con associazioni locali, che hanno generato rassegne sul cinema musicale, sul cinema della terza età, sul cinema di impegno legato ai temi della giustizia e del lavoro. Erano momenti di aggregazione, ma anche occasioni di scambio con le istanze di base del territorio. Un lavoro più che mai importante in un contesto di periferia difficile com’era, ed è, Bonagia.
Tutto ciò vale ancor più nel rapporto con le scuole. Dal 1999 e per i primi tre anni del Lubitsch, in occasione di film particolari, ci fu un’altissima partecipazione delle scuole di tutta la città. Questo poteva avvenire perché ancora le classi uscivano per andare al cinema: oggi le scuole, per ricollegarmi al tramonto del cinema come luogo fisico, sono tutte attrezzate con sale multimediali. Per i ragazzi del quartiere fu un’occasione di socializzazione, ma non soltanto. In una parte della città dove la mafia si impone con i suoi codici ancor prima che con azioni materiali, quel piccolo cinema parlava un linguaggio diverso. Portava correnti d’aria pulita. Qualunque elemento di progresso introdotto in una società malata e corrotta è assolutamente rivoluzionario. Di certo serviva altro tempo, altri anni, perché questi processi maturassero. Tempo che è mancato, anche per colpa di istituzioni poco sensibili alla tutela di presidi fisicamente non ‘centrali’ nel panorama cittadino. Il Lubitsch andava sostenuto.
Servirebbe, oggi più che mai, un cinema che, a partire dalla scelta delle proposte, impegni mente e cuore, stimoli l’interrogarsi: penso a quello che un tempo era chiamato ‘cinema d’essai’. A Palermo non mancano rassegne a cura di enti, associazioni e fondazioni, ma il loro carattere è episodico e legato alla misura dei finanziamenti pubblici. Ci vorrebbero presidi stabili sul territorio, che investano con proprie risorse: nel tempo i tentativi ci sono stati, ma oggi resta ben poco. Che speranze è lecito affidare al futuro? Come valuta in particolare il pubblico palermitano?
Complessivamente il pubblico palermitano mi è parso un po’ provinciale, poco autorevole e poco imparziale rispetto alle mode e alle tendenze del momento. Per questo è un pubblico su cui è difficile investire. C’è stato, comunque, un periodo in cui a Palermo si contavano almeno tre cinema d’essai: il Lubitsch a Bonagia, l’Aurora a Tommaso Natale e il Royal nel quartiere Oreto. Oggi resta il solo Aurora che, da multisala, si divide fra un circuito più commerciale ed una proposta autoriale. Probabilmente è stato favorito dal territorio; ai proprietari va comunque riconosciuto il merito di aver saputo rischiare in tempi già difficili, i primi anni ’90, e di avere coltivato un pubblico fedele. E’ una testimonianza di come il ‘buon vecchio cinema’ possa sopravvivere, e potrebbe essere un paradigma a cui ispirarsi per un possibile rilancio nella nostra città.
Come vede, in tal senso, l’esperienza de De Seta, primo cinema pubblico della città, aperto dopo anni di oblio ai Cantieri Culturali alla Zisa? Da diversi mesi è coinvolto in rassegne tematiche ad opera di enti e associazioni locali.
Il cinema De Seta non è ancora chiaro ‘cosa’ sia. Ad oggi non ha una fisionomia ben definita. Direi che risponda più a logiche politiche che non a un progetto culturale organico e, soprattutto, aperto a tutta le anime della città. Progetto a cui, per dimensioni e centralità, potrebbe perfettamente assolvere. Finora ha prodotto iniziative ‘una tantum’ che, complessivamente, hanno visto una scarsa partecipazione di pubblico. Non a caso, la programmazione è gestita fra gli altri dal Centro Sperimentale di Cinematografia di Palermo, struttura legata a filo doppio alla politica e sostanzialmente priva di un progetto. Ne è prova il fatto che produce ben poco.