Tino Signorini, compie ottanta anni, e con “La città di notte”, personale promossa da Elle Arte, contribuisce a dare senso e maggiore densità alla sua poetica. Un esemplare artista che di Palermo ha fatto il suo orizzonte speculativo, la sua tensione creativa volta ad una parabola esistenziale malinconica e struggente.
di Aldo Gerbino
Il bagaglio spirituale da cui trae alimento Tino Signorini ci viene offerto dall’evidenza stessa del suo intenso lavoro creativo, dalla interazione del registro espressivo con l’interezza del suo esistere, da quel porsi, artista sensibile qual è, di fronte al mondo, al circostante che ne costituisce il nocciolo metaforico, alla sua declinata tendenza, sempre più problematica, catecumenale, a rapportarsi con le crescenti difficoltà della città in cui vive, in cui produce, in cui secerne, dolorosamente, pensieri in forma di pitture, segni in forma di ferite, dogliose erosioni. In questo egli vi riconosce, – almeno crediamo, – la propria solitudine, la precarietà di trovarsi in un ambiente fortemente depauperato dei valori cui intere generazioni si sono plasmate, indelebilmente, organicamente, forgiate.
Ecco, allora, che la città di Palermo posta nella lente di Signorini, si avvolge e si dilata nella sua stessa contraddittorietà (vera e propria emulsione categoriale della sua essenza), nella quale appare epigeneticamente tramata, in quel suo stesso brodo: equoreo e palustre territorio di abbandono. Un distacco opposto agli autoreferenziali fuochi d’artificio rivolti a quegli epidermici tentativi, cui spesso assistiamo, di volerla proiettare, pur senza mezzi e attuali qualità, verso scenografie future a forte impatto comunicativo, tralasciando invece quella radicalità d’azione sostanziale che dovrebbe essere assunta come ‘impertinente’ segnale di cambiamento. Perché riteniamo che oggi ci sia bisogno d’una positiva impertinenza contro la reiterata modestia delle proposizioni politiche ricolme di orpelli narcisistici, d’insostenibili ipocrisie sociali. Ecco che al franare di importanti istituzioni culturali, al continuo gemere d’una città la quale depone sotto i nostri occhi la perennità delle sue ferite, ai disattesi bisogni fondamentali, cardine di ogni vivere civile, a quanto di inascoltato, di inevaso si va accumulando, si persevera colpevolmente con quella non tramontata “spocchia” (termine già usato nel contesto panormita da Cesare Brandi), con quella ofanità direbbe il poeta Meli, ben cristallizzata nell’esercizio politico. Un esercizio sempre più inadeguato a colloquiare con quegli umani drappelli vestiti, secondo molti, d’ingenuità e che, in malafede, vengono catalogati come ‘stupidi’ (d’altronde la furbizia, endemico male italiano spacciato per qualità, quando non è praticata si riversa sull’individuo come un inequivocabile marchio di minorità). Sono, però, questi ‘noiosi’ manipoli ad affermare su tutto la priorità dell’assetto morale, dell’avvio fabrile, anticonsortile, dell’anti-appartenenza ai sistemi di potere, e che contestano quella cultura inserita nelle lobby, e che si oppongono a quanti abdicano alla ginnastica imposta dalla ‘parola’ dando persino consenso alla torrentizia banalità della canzonetta i cui protagonisti vengono salutati come maître à penser, al vacuo parlottio da villaggio globale, misconoscendo la diversità degli ‘specifici’, alterando, così, i livelli di merito.
Desiderî ritenuti infantili, che insistono a ritrarre cielo e mare di Palermo o la stessa olfattività lacerata, quale rinnovo per una efficace modernità sollecitatrice di progresso, custode della sua storia classica, del suo racconto antico. Su tale piattaforma ideale la pittura di questo ottuagenario artista, sempre fedele a se stesso, alla sua poetica, all’indiscussa sua antigraziosa idea dell’arte, privata da affabulazioni, tramata nella matassa di colori freddi e corrosi, oppure vibrata per segni intimi, scuotenti, attraverso la catena dei suoi ‘conté’, diventa, soprattutto nel nostro tempo, una pagina politica. La città di notte di Tino dipinge la città nella notte, la ‘città prigione’: quella notte perseverante, incapace di guardare, più che mai di vedere, e di far propri quelle mutazioni germinanti nel bozzolo della storia attuale, delle storie trascorse e non concluse, delle singole civiltà oggi fortemente globalizzate sul podio asfittico dell’economia, difficili da decrittare, fuori da ogni piega sentimentale.
Dal limite sbrecciato di un terrazzo, dalla fessura irregolare d’una finestra, dal disadorno quanto gelido angolo di cucina, da un interno macchiato da lastre di luce calcinata, Signorini ci restituisce le baluginanti icone della sua/nostra città: lettura che non si proclama prigioniera di un’alcova senile, piuttosto denuncia quanto sia incapace l’agire politico a sciogliere il cumulo sempre più alto dell’indifferenza, della quotidiana crudeltà espressa in quel perpetuare offese al nostro vivere. Il profilo inciso di un albero, un portone corroso nelle voragini di storie urbane (tracce per quelle sensibili malinconie care ad un Rosario La Duca), la cupezza azzurrognola d’un cielo per poco tempo acceso nel grido scattante del colore terroso, i tagli inferti da un nero deciso o dal rosso straziato dal quale si accende la macchia improvvisa e combusta del cromo, il colare, nella profondità solenne del buio, di corpi appena riflessi, resi informali, gravidi d’inquietudine, sono tutte queste le voci che percorrono le tele di Signorini. E ancora lo spazio urbano con i suoi simboli contrapposto ad oggetti dimenticati, silenti, oppure l’elegante espressività minimale delle superfici euclidee in cui si affronta la circolarità di un tavolo contro l’onda crepuscolare diffusa dall’esterno, diventano anime inquiete e pervadenti. E i tagli, o i calchi di orografie con architetture riflesse per cangianti, tenui penombre di asseramento, ci offrono luci residue appena tagliate nell’olio da un giallo ossidato, impervio, quasi elemento ustorio d’incenerimento per tracciare, almeno nelle opere che riguardano quest’ultimo biennio (Case e montagne; Interno domestico, 2013), il catalogo più pertinente a quel realismo esistenziale in cui la liricità minimalista di Signorini si oppone alla descrizione, alla ridondanza e alla esasperazione tecnica della ricerca contemporanea. In tal modo la sua sofferta intimità coagulata per interni di abitazioni, già annotata in tempi remoti da Renzo Vespignani, nel suo sguardo tenace verso l’insostituibile lezione morandiana, si consolida in quella metafisica appartenuta a Gianfranco Ferroni, alla poetica della “metacosa” promossa da Roberto Tassi (1979) in cui Ferroni, Bernardino Luino o Lino Mannocci, hanno segnato quella cifra di ricerca dilatata dalle istanze della nuova figurazione. Da questi accordi intellettivi e percettivi una vibrante patina espressionista si aggiunge oggi sull’essenza di ambienti e cose: uno stillicidio di forme accarezza il volto d’una città in cui Tino avverte il suo lacero sapore antico, la sua estenuata notte, densa per echi scomposti, per tracimate ‘amaritudini’.
La mostra (inaugurazione oggi 5 dicembre ore 18.00) si concluderà il 29 c.m. (chiusa domenica e festivi; orari: 16.30-19.30)- Visitabile alla Galleria Elle Arte, Via Ricasoli, 45-Palermo. Catalogo Elle Edizioni, Palermo