Parlare di religiosità dentro Cosa Nostra sembrerebbe paradossale. Eppure, quello tra religione e mafia sembra essere un legame inscindibile
di Emanuela Burgio
Nella sfera del sentire mafioso, il ricorso alla religione e, quindi, a una giustizia divina, sembra servire da alibi nei confronti di una giustizia umana decisamente poco accomodante.
Non è per niente casuale che seguendo una complicata combinazione di fede, religiosità e mafia, scopriamo vicende singolari.
L’infrazione delle leggi dello Stato, non è percepita come una reale forma di ‘devianza’, o come una violazione di regole cui normalmente il soggetto è tenuto a conformarsi. E’ laddove non viene percepita la devianza, non sussiste neanche la colpa. Se, quindi, per gli uomini di Cosa nostra non c’è colpa nel compiere quelli che per la società civile sono considerati reati, non c’è alcun problema nel proclamarsi religiosi, arrivando a situazioni che all’esterno potrebbero sembrare inspiegabili e irrazionali.
Altre volte, invece, la complessità della contraddizione è chiarissima e viene vissuta come un conflitto che difficilmente potrà trovare soluzione. Un conflitto che spinge l’uomo d’onore in questione a rinnegare l’universo mafioso. Queste sono le occasioni in cui la religione può spingere al pentimento.
Ciò che sembra emergere nelle esperienze religiose di molti uomini d’onore è l’assoluta strumentalizzazione della religione, intesa come fattore che crea consenso e legittimità, come un elemento normalizzante, che faccia da ponte tra l’universo mafioso e quello della società civile, per la verità non così lontani.
Ma l’elemento che più dovrebbe fare riflettere è la connivenza della Chiesa, che fino alla metà degli anni Ottanta non si era mai esposta in modo netto e deciso nei confronti del problema mafia.
La questione mafiosa, per molti anni, è stata rimossa sia dai siciliani sia dalla chiesa. Negli anni Settanta nessuno parlava di mafia, tranne i comunisti e i sindacati. Ma la loro pasrola non valeva nulla, perché loro appartenevano alla sponda dei ‘senzaDio’. Lo stereotipo, infatti, funzionava benissimo. Il discorso sulla mafia è discorso da comunisti. Se, quindi, della mafia parlano i comunisti, non devono parlarne i non-comunisti. Così la denuncia del fenomeno veniva recisa alla radice, nel momento stesso in cui il fenomeno veniva ridotto a questione di lotta politica.
Il messaggio che chi osava parlare di mafia, comunque, era chiaro: è impossibile essere cristiani e insieme mafiosi. Era il momento di fare una scelta radicale. Si sottolineava il fatto che la vita mafiosa corrodeva la testimonianza cristiana e, di conseguenza, la vita e la credibilità della Chiesa. Questa denuncia disturbava il finto quieto vivere di quegli anni, ed era condivisa e portata avanti solo da un piccolo numero di sacerdoti e di laici cattolici.