Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalisti indipendenti

Maria Occhipinti: una ribelle del ‘900

di Redazione

Amata e odiata. Apprezzata e biasimata. Coinvolta e discriminata. Ritratto di una delle rivoluzionarie più attive sul fronte dell’uguaglianza sociale

di Rosalba Barbato Di Giuseppe 

“Maria hai due occhi che dicono tante cose”. E’  l’avvocato Milito a parlare, quando incontra una giovane ragazza, malvestita eppure desiderosa dello splendore, lo intuisce da come parla, da come le brillano gli occhi che ricerca qualcosa in più, un’alternativa. Così l’avvocato decide di prestarle un libro.”. 


Maria Occhipinti è una giovane donna sposata, vive con la famiglia e deve fare i conti con la fame. Prega che la guerra finisca e che il marito possa far presto ritorno a casa. E’ la condizione di moltissime donne della Sicilia della seconda guerra mondiale. Dalle immagini di repertorio quei volti  femminili appaiono stanchi, non solo per le lacrime versate, ma soprattutto per la fatica di sopravvivere. Eppure in loro si legge un barlume di speranza.

In Maria quel barlume è una luce. Forte come la povertà è la sete di sapere, più forte dell’angoscia è la fantasia. La giovane è culturalmente vorace. Non può permettersi di andare al cinema e si nutre dei racconti della vicina che si gusta le magie di uno schermo, ma rimane a digiuno. Eppure, nonostante questo assaggio di seconda mano vissuto con grande enfasi, l’animo tumultuoso di Maria non viene placato.


Durante l’attesa in una fila estenuante per ricevere il sussidio, comincia a ragionare sull’inutilità della guerra.
” … i nostri mariti, i nostri fratelli, i nostri figli sono considerati pezza che và per aria…”. Quando si ritrova in mano i soldi si sente bruciare dentro e fuori.
Un ragionamento che parte da un moto sentimentale, ma che si sviluppa attraverso una volontà di formazione culturale che non può portare ad altro che all’emancipazione sociale. Così comincia a
frequentare circoli, indice riunioni a casa, si organizza con i vicini e con chi è politicamente schierato dalla parte dei più deboli, legge giornali, tenta di interpretare la realtà.

Tutta la sua vita sarà un eterno percorso di autoformazione, che toccherà ogni ambito della vita, da quella domestica,  (rabbrividivo all’idea di passare tutti i giorni dietro le faccende) a quella sentimentale ( io voglio amare come una Regina, non come una moglie).

Cerca costantemente uno stimolo per arricchirsi, per trovare un senso, perché non si può accettare il presente così com’è. Ogni cosa per lei è degna di riflessione, anche la festa per la fine della guerra non viene vissuta come un momento di gioia, ma soprattutto di contesa tra vecchi valori e una nuova condizione esistenziale. ”Non possiamo ringraziare una statua se l’orrore della guerra è cessato. Sarebbe come attribuirgli una responsabilità, sarebbe come accusarla di non aver agito per evitarlo, quell’orrore. Perché affidarsi a un legno quando gli unici responsabili siamo noi?”

La goccia che fa traboccare il vaso è la cartolina rosa che richiama gli uomini alla leva.
“Lascerò il mio telaio da ricamo, pezze, cuffiette e camicine per la mia creatura, butterò ogni cosa alla rinfusa nel cassetto e andrò allo sbaraglio.”
Ha solo 23 anni Maria ed è incinta, ma non esita a gettarsi in mezzo alla strada per bloccare la camionetta dei militari che prelevano di porta in porta tutti gli uomini che si dimostrano renitenti.

La rivolta dei ‘Non si parte’, movimento pacifista costituitosi spontaneamente per l’occasione, scoppia il 6 gennaio del ’45.
Moltissime donne scendono in piazza spinte dal coraggio di Maria. Persino le più cattoliche mettono da parte il rosario, riponendo piena fiducia in lei e agli altri militanti.
Nonostante la dura condanna e il confino a Ustica, in cui dà alla luce  la sua unica figlia, riceve anche il biasimo dei compagni per quel gesto considerato fascista, da separatista.
Maria tuttavia seguita nel suo intento: stare bene, far star meglio le altre.
Stringe amicizia con ladre, lesbiche, prostitute, assassine e persino ‘le reginelle’, ragazze disinibite che vivono in isolamento e sono viste da tutte come ‘bestie schifose’’. Maria si fa amare da tutte, tranne forse da qualche monarchica.

Nella sua prima autobiografia Una donna di Ragusa trova spazio tutto il suo essere, la sua curiosità, la sua volontà emancipatoria, l’ideologia femminista pronta a sbocciare e anche questo periodo detentivo, raccontato con forza, dignità e armonia.

Il suo stile asciutto, scarno, degno del migliore Verga, viene inserito, a pieno titolo, nel filone neorealista.
Carlo Levi scrive nella prefazione: «La rivolta individuale diventa spirito di giustizia, assoluto, per tutti, l’esame di coscienza, azione con gli altri: lo sforzo di liberazione femminile si sposta dal piano privato e familiare della servitù del costume, dell’ignoranza e del pregiudizio, sul piano pubblico dell’azione politica».

La volontà indomita di Maria Occhipinti è ineguagliabile. Una donna del popolo che guida se stessa verso la liberazione personale, che ben presto intuisce che si è liberi veramente insieme agli altri e le altre. Si fa ostia, è con e per gli altri, come direbbe Danilo Dolci, si impegna a donarsi costantemente, sfida pregiudizi, tabù e nostalgie, se ne va dalla madre terra. In un certo senso viene spinta via dalla malelingue, dall’oppressione, dall’ambiente soffocante, e in un altro senso sceglie di spiegare le ali per crescere, in un’eterna sfida con se stessa. Quando torna in Italia con quella faccia da straniera, con quell’accento non identificabile, riprende a scrivere di Ragusa, delle terre espropriate, delle ingiustizie che colpiscono la Sicilia. Si può essere solidali anche a distanza, a volte.

 

 

 

 

 

 

 

 

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