Alla Basilica Palladiana di Vicenza, fra luci ed ombre, una monumentale mostra sulla nascita e lo sviluppo del genere paesaggistico
di Salvo Ferlito*
Qual è (o quale dovrebbe essere) il reale fine perseguito da una grande mostra di pittura, zeppa di autentici capolavori di importanti artisti storicizzati? Semplicemente quello di attrarre il maggior numero di visitatori e di far cassa il più possibile, o anche, e soprattutto, quello di conseguire un obiettivo culturale (che non si limiti alla esclusiva fruizione estetica), nel pieno rispetto di accurati criteri di inquadramento storico e ancor più tematico?
Quesito ponderoso e tutt’altro che di poco conto; e tuttavia sempre più centrale e presente nel dibattito fra i vari addetti, vista e considerata la sempre maggiore rilevanza attribuita all’aspetto economico-finanziario, inteso ormai come prioritario (se non unico) criterio guida e principio ispiratore. Una esigenza, quella di “far cassa e dividendi”, che non va aprioristicamente demonizzata (ben venga infatti una esposizione che attragga turisti e coinvolga anche l’indotto, ovvero alberghi, bar, ristoranti e negozi di merchandising), ma che non può né deve essere il cogente presupposto da cui muovere nei processi di progettazione ed organizzazione culturale.
Basta, allora, prendere in esame una “mostra-evento” di grande risonanza, quale Verso Monet, storia del paesaggio dal Seicento al Novecento (organizzata da Marco Goldin e visibile alla Basilica palladiana di Vicenza fino al 4 maggio), per rendersi pienamente conto di come la necessità di fare “schei” (o “piccioli”, se preferite) la faccia da padrona incontrastata, prevalendo nettamente su molte altre considerazioni di carattere storico ed artistico.
Non basta, infatti, imbarcare una vagonata di splendidi di dipinti (con i soliti impressionisti e post-impressionisti a fare pubblicitariamente da specchietto per le allodole), perché una mostra di pittura oltre che attraente e vincente sia anche del tutto convincente. Se si decide, per l’appunto, di tracciare una precisa storia della pittura di paesaggio, non si può ometter alcuna tappa fondamentale (nello specifico la Macchia toscana) né privilegiare (con una opinabilità adatta al marketing ma inadeguata ad una attenta ricostruzione storica) i linguaggi e gli artisti più noti (per via mediatica) al grande pubblico, contribuendo a relegare nel dimenticatoio (scelta particolarmente grave in una occasione di tal visibilità) artisti di non minore rilevanza e validità. E’ anche vero che questa esposizione non ha solo ombre, in quanto in grado di profilare congruamente la nascita del genere paesaggistico (dal ruolo della pittura italiana di tardo ‘500, con il primo paesaggista della storia moderna, Annibale Carracci, a quello della pittura olandese del ‘600, con il grandissimo van Ruisdael) e soprattutto perché capace di porre in evidenza alcuni movimenti e artisti meno conosciuti (come l’americano Church, fra gli artefici della “wilderness”, o gli ungheresi Brodszky e Lotz e il romeno Grigorescu, con le loro declinazioni est-europee, o ancora il finnico von Wright, col suo luminismo nordico), offrendo così ai visitatori l’imperdibile occasione di prendere visione di opere raramente esposte alle nostre latitudini. Incomprensibile invece – per tornare alle ombre – l’inserimento delle vedute venete del ‘700 (Canaletto, Bellotto e Guardi), palese omaggio alla regione che ospita la mostra, ma contributo incongruente con un percorso tutto incentrato sul rapporto fra pittura e ambiente naturale.
Una esposizione, comunque, da vedere, ma che costituisce una ennesima occasione persa ai fini storico-artistici (per la vergognosa assenza dei nostri macchiaioli) e una riprova della fin troppo pressante interferenza esercitata dalle logiche del mercato in dinamiche che dovrebbero essere di preminente ordine culturale.
*critico d’arte