Il fenomeno migratorio dal versante del contesto storico, socio-culturale e religioso delle confraternite senegalesi
di Padre Sergio Natoli*
Sono a Madrid e vedo le medesime scene già viste a Parigi, Milano, Roma, Palermo ed in altre città: uomini africani che velocemente raccolgono le loro mercanzie esposte in una stoffa su un marciapiede che scappano perché arriva la polizia. Si spostano in una via secondaria e non appena la polizia va via, ritornano ad esporre le loro cose nella speranza che tra un’incursione e l’altra della polizia riescano a vendere qualche occhiale o qualche borsa.
Diverse volte ed in città diverse, mi sono fermato a parlare con qualcuno di loro per capire meglio la loro situazione migratoria.
Essendo stato in Senegal, e conoscendo un po’ la situazione di quel Paese, ogni volta mi pongo molte domande: perché sono costretti a vivere da clandestini subendo questa forma di “schiavitù commerciale”, costretti a scappare in continuazione? Immagino che vivano in una situazione di frustrazione continua!
Mi chiedo ancora: chi li fa venire in Italia, Spagna, Germania, Francia? Chi paga per loro il biglietto e procura loro l’alloggio? Chi garantisce per loro? Chi procura loro gli occhiali, le borse e tanti altri oggetti che sembra essere merce contraffatta? Chi c’è dietro di loro? Il guadagno della vendita a chi va? Come vivono in Europa e cosa resta loro per vivere?
Parlando con diversi di loro mi rendo conto che quasi tutti fanno parte di una “confraternita religiosa islamica” collegata ad una grande moschea senegalese. Mi viene detto che al Paese, è consuetudine coltivare un campo di arachidi o tenere del bestiame per il loro Marabù, per il suo ruolo di capo religioso investito anche di un ruolo di mediazione verso Allah.
“Ma allora ti manda il Marabù?”. Chiedo al mio interlocutore. “No, non è proprio così”. Mi risponde. Dal dialogo comprendo che la sua presenza in Europa, oltre ad essere un’opportunità per mandare un aiutino alla famiglia, è anche un atto di benevolenza verso il Marabù. E’ lui che gli offre la disponibilità e la possibilità di lasciare il Senegal per inserirsi in un circuito di venditori ambulanti che sostengono la moschea, la confraternita ed il prestigio del loro capo religioso, godendo così dei benefici di Allah per sé e la sua famiglia.
Leggere questo particolare fenomeno migratorio dal versante del contesto storico, socio-culturale e religioso delle confraternite senegalesi, è una cosa normale, com’era normale al tempo del latifondismo che il contadino lavorasse per il padrone terriero e tenesse per sé il necessario per il suo sostentamento ed a quello della sua famiglia, con un atteggiamento di sottomissione e spesso di venerazione. Leggere questo fenomeno dal nostro versante, dal versante del Europeo potrebbe portarci a pensare ad una forma si “schiavitù religiosa” con finalità finanziarie.
Di certo la vita di questi venditori ambulanti, come quella di tanti altri che percorrono in lungo ed in largo le nostre spiagge, è certamente un’esistenza difficile e grama.
La loro presenza tra noi è una continua sfida all’accoglienza delle diversità, alla conoscenza delle loro storie, delle culture e tradizioni, nonché alla loro integrazione. Dinanzi alle singole persone non possiamo fare “di tutta l’erba un fascio”, né tantomeno leggere con un atteggiamento assimilitario, ghettistico o escludente, la loro presenza nel nostro territorio. Credo che sia necessario avere sempre un atteggiamento accogliente ma anche un ‘atteggiamento critico capace di valutare il più oggettivamente possibile, le diverse situazioni e le storie dei migranti, alla luce della Dichiarazione universale dei diritti umani, firmata a Parigi il 10 dicembre 1948, e che ci permetta di comprendere se dietro alcune migrazioni “culturali e religiose” si nascondano condizioni di limitazione o addirittura di privazione della libertà individuale.
*Associazione Arcobaleno dei popoli