Un omaggio a un quarto di secolo dalla loro scomparsa ai due più bravi e più noti interpreti del folk music revival siciliano che la Sicilia abbia mai avuto: Rosa Balistreri e Ciccio Busacca.
La Redazione
E’ trascorso un quarto di secolo e poco più, dalla morte dei due grandi interpreti della folk music revival siciliano. Forse, i più grandi interpreti del genere che la Sicilia abbia mai avuto. Stiamo parlando di Rosa Balistreri e Ciccio Busacca.
Nati ad appena due anni di distanza uno dall’altra, nel 25 Ciccio, nel 27 Rosa, la loro contemporaneità fa sì che le loro vicende artistiche e umane si intrecciano in più occasioni. Ma non è soltanto l’avere vissuto nello stesso periodo o l’essersi cimentati nello stesso genere musicale che li accomuna. Il comune denominatore ai due artisti, in realtà, è rappresentato dal grande talento che li ha caratterizzati e che ha caratterizzato un’epoca talentuosa nel genere folk. Un’epoca che si perpetua ancora oggi, lasciando un’eredità inestimabile alle generazioni odierne.
Ed è proprio del ricco patrimonio artistico tramandato in oltre mezzo secolo di carriera dai due artisti che vogliamo parlare e vogliamo farlo in occasione dei recenti anniversari dalla loro morte.
Rosa Balistreri.
Nasce in terra agrigentina, a Licata, da una famiglia molto povera. Il padre è un uomo molto geloso e, talvolta, violento con la famiglia. Il suo atteggiamento trasgressivo e fuori dai canoni familiari è acuito dal vizio del gioco e dell’alcool di cui l’uomo è preda. La madre, invece, è una donna buona e semplice che subisce dal madre ogni sorta di angheria. Rosa ha pure due sorelle, una delle quali, vittima dell’ennesima tragedia che colpisce la famiglia. Ma a completare il triste quadro familiare, si aggiunge un fratello invalido.
Sin da piccola, la cantante è costretta ad aiutare la famiglia. Si da, infatti, a qualsiasi tipo di lavoro. Fa la domestica nelle case di ricchi benestanti, lavora al mercato del pesce, si dedica alla campagna, lavorando nei campi di grano. Insomma, una vita piena di sacrifici dalla quale si ribella solo attraverso il canto, che diventa il suo grido di dolore e di protesta. Canta per sfogare la rabbia.
Il timbro della sua voce è forte e intenso. Questo le consente di interpretare in maniera superba le canzoni popolari siciliane con un carattere drammatico, attraverso il quale esprime la miseria e il dolore della sua terra.
Con un bel matrimonio combinato, sposa Iachinuzzu, Gioacchino Torregrossa, uno scavezzacollo peggio del padre; anche lui con il vizio del gioco e che la stessa cantante definirà più tardi nelle sue canzoni, un ladro, un giocatore e un bevitore. Da questo matrimonio infelice, nasce una figlia, alla quale il padre dilapida tutta l’eredità. Rosa tenta di ucciderlo e si costituisce subito dopo, beccandosi sei mesi di carcere. Quando ne esce, lavora più di prima per mantenere la figlia. Fa ogni sorta di lavoro. Per ultimo, la domestica presso una ricca famiglia, dove vi rimane, fino a quando viene messa incinta dal figlio. Lo stesso uomo che la illude di darle una vita lontana da tutti e la induce a portare via degli oggetti dalla stessa casa per fuggire insieme. Viene, però, denunciata e arrestata per altri sei mesi. Uscita dal carcere, vive per strada. Perde il bambino. E continua a essere infelice.
Parte per Firenze con il fratello. Chiama le sorelle a sé. Una delle due, segue la sorella per sfuggire alle violenze del marito, che, però, la raggiunge e la uccide. Il padre si uccide per il dolore.
Insomma, una tragedia dopo l’altra che rendono la vita della giovane piena di dolore.
Finalmente conosce il pittore Manfredi Lombardi al quale si lega sentimentalmente e, grazie al quale, comincia a prendersi qualche soddisfazione dalla sua vita grama. Il pittore la presenta a personaggi come Mario De Micheli, Ignazio Buttitta, Dario Fo.
Vive per 20 anni a Firenze e nel ’71, si trasferisce a Palermo, sua città ispiratrice.
Qui, per mantenere sé e la figlia, che nel frattempo rimane incinta, canta per le feste dell’Unità, recita nel Teatro Stabile di Catania, partecipa a Canzonissima.
Muore nell’ospedale palermitano di Villa Sofia per un ictus celebrale.
Rosa Balistreri, i cui canti sono politicamente impegnati, non ama definirsi una cantante, ma un’attivista. E’ lei stessa, infatti, a dire di sé che si può fare politica e protestare in mille modi. Il modo che ha scelto lei è quello di cantare. “Io canto – dice l’artista in una vecchia intervista – , ma non sono una cantante… sono diversa, diciamo che sono un’attivista che fa comizi con la chitarra”. Il suo viso solcato dal dolore e dalle tragedie rimane ben impresso negli spettatori, come le canzoni popolari siciliane che interpreta, nelle quali si racconta non solo la miseria, ma anche l’orgoglio e lo sdegno del popolo siciliano, suo ‘musa ispiratrice’. «Ho imparato a leggere a 32 anni. Ho fatto molti mestieri faticosi per dare da mangiare a mia figlia. Conosco il mondo e le sue ingiustizie meglio di qualunque laureato. E sono certa che prima o poi anche i poveri, gli indifesi, gli onesti avranno un po’ di pace terrena». Così si presenta Rosa ai giornalisti che la intervistano a al pubblico che comincia ad amarla.
Le sue storie di miseria vanno direttamente al cuore di chi è più sensibile ad argomenti come la fame, la disoccupazione, le donne madri, l’emigrazione, il razzismo dei ceti borghesi. Rosa conserva ancora oggi la straordinaria capacità di trasmettere la disperazione, di renderti compartecipe del lamento. Anche questo è fare politica. Fare politica, però, con il dolore della vita e con la gioia del canto.
Ciccio Busacca
Con una grande passione per la narrativa e con lo stesso spirito di denuncia civile simile a quello della Balistreri, uniti a una forte sensibilità musicale, anche Ciccio Busacca si distingue nel mondo dei cantastorie siciliani. Un genere, quest’ultimo, particolarmente sviluppato nel secondo dopoguerra.
E’ questo, essenzialmente, come già detto, il comune denominatore che avvicina i due artisti: la denuncia civile con la quale sono imbevute le canzoni di entrambi.
Ciccio Busacca (il nome Ciccio, o Cicciu, diminutivo di Francesco) matura le sue doti artistiche a Paternò, ascoltando i versi di diversi cantastorie ambulanti, tra cui Paolo Garofalo e Gaetano Grasso.
Il suo debutto avviene nel 1951 a San Cataldo, nel nisseno, in occasione della rappresentazione de L’assassinio di Raddusa, tratto da una storia di cronaca avvenuta realmente nel paese di Raddusa (CT). Nel 1951, infatti, Busacca viene a sapere della storia di una ragazza di 16 anni, da poco sposata, violentata da un sensale di matrimonio. La ragazza, abbandonata da tutti proprio a causa della violenza subita, giura di vendicarsi del proprio violentatore. Così, per mettere in atto la meditata vendetta, lo avvicina mascherata da anziana per non farsi riconoscere, e lo uccide con una pistola.
Nel 1957, a Gonzaga, l’Associazione italiana cantastorie ambulanti conferisce a Busacca il primo premio “Trovatore d’Italia“, per la storia L’Innucenti vinnicaturi.
È negli anni successivi che si pose l’incontro con Ignazio Buttitta e con la sua poesia: di questo sodalizio i risultati più significativi rimangono le messe in scena del Lamentu ppi Turiddu Carnivali, Lu trenu di lu Suli e Che cosa è la mafia?
Negli anni Settanta, arriva la sua prima esperienza teatrale e la sua partecipazione a diversi programmi radiofonici e televisivi.
A partire dalla fine degli anni ‘70, inizia l’inesorabile declino di popolarità (ma non artistico) di Busacca e degli altri cantastorie siciliani, prime vittime della diffusione della televisione quale mezzo di comunicazione di massa.
E’ così quasi la fine di questi cantori di una tradizione millenaria. Busacca muore nel 1989.
Ciccio Busacca, rimane, comunque, uno dei più bravi e noti cantastorie del nostro Paese e moltissime sono le sue collaborazioni con personaggi e artisti di grosso spessore, come Rosa Balistreri, i poeti dialettali Turiddu Bella e Ignazio Buttitta del quale interpretò le liriche più belle come “U lamentu pi la morti di turiddu Carnavali” e “Lu trenu di lu suli” pagine toccanti della grande poesia di Buttitta, pagine che hanno segnato la storia siciliana di quell’epoca. Da sottolineare la sua versione di «La storia di Turi Giuliano Re di li briganti», cui ha adattato un testo suo dopo aver cantato per anni la versione di Turiddu Bella. Dario Fò lo volle nel suo collettivo come interprete nel suo “Mistero Buffo” – “Ci ragiono e canto n.3” – “Giullarata”, in quest’ultima al suo fianco recitarono le figlie Concetta e Pina, che a loro volta dimostrarono una grande bravura e notevole capacità esecutiva, inserendosi autorevolmente nella scia tracciata dal padre. La sua carriera toccò l’apice che lo portò ben presto ad essere conosciuto in diverse parti del mondo.
La mimica, la gestualità nella rappresentazione, la forza, “la verve” la comunicazione, erano le componenti che lo distinguevano e che lo ponevano al di sopra dei cantastorie di quel periodo. È stato un interprete straordinario, con una visione drammatica, sarcastica e ironica. Unico e grande, nei distinti ruoli, riusciva ad interpretare queste diverse facce in un solo personaggio. La nota che ci rattrista ma che non ci fa desistere nella ricerca è che, ad eccezione delle Giullarate con Dario Fo, di Ciccio Busacca, oggi non restano che poche tracce della sua opera.
Note Biografiche Da piccolo comincia a lavorare con il padre che aveva una fornace di mattoni, successivamente svolge diversi mestieri, il muratore, il carrettiere, il bracciante. A 27 anni decide di fare il cantastorie divenendo in breve tempo il più noto e interessante cantastorie del suo tempo. Uno dei suoi maestri fu Gaetano Grasso. La sua prima apparizione in pubblico avviane in una piazza di San Cataldo (CL) nel 1951, con la storia “L’assassinio di Raddusa”. (Questa storia veramente accaduta a Raddusa (EN), narra la vicenda di una ragazza di 17 anni che si vendica dell’uomo che l’aveva violentata, lo avvicina nella piazza del paese mascherata da anziana e lo uccide).
L’incontro con Ignazio Buttitta diventa un momento che segnerà per sempre la sua vita. Egli inizia una profonda opera di rinnovamento di quest’arte, inserendo tra i tradizionali argomenti fino ad allora usati dagli altri cantastorie, una nuova forma di comunicazione atta a creare in chi lo ascoltava una coscienza politica che finirà col dare una rinnovata forza alle sue storie, ma che soprattutto gli consentirà di raggiungere il più vasto pubblico degli operai urbanizzati e politicizzati.