Intervista a Carlo Barbieri, raffinato e colto, scrive con parsimonia gialli intriganti che avvincono il lettore.
di Pippo La Barba
Carlo Barbieri è uno scrittore siciliano “tardivo”, come altri della sua terra. Fra le sue opere, le raccolte di racconti “Pilipintò-Racconti da bagno per Siciliani e non” , “Uno sì e uno no” e i gialli “La pietra al collo” (ripubblicato da Il Sole 24 Ore), “Il morto con la zebiba” e “Il marchio sulle labbra”.
Collabora con Fatti Italiani e cura rubriche su Sicilia Journal, Nitronews e Malgradotutto.
“Pilipintò- Racconti da bagno per Siciliani e non” è stato premiato all’Umberto Domina, manifestazione riservata alla letteratura umoristica, dove ha ricevuto anche il Premio Speciale della Giuria per la migliore ambientazione siciliana.
“Il morto con la zebiba“ è stato candidato al premio Scerbanenco e ha ottenuto una menzione al Giallo Garda.
“Il marchio sulle labbra” è stato premiato al Giallo Garda.
Racconti editi e inediti hanno avuto riconoscimenti al Città di Torino, al Città di Sassari, al Città di Catania, al Città di Cattolica e al Premio Internazionale Il Convivio.
Un talento che esplode in età matura costituisce un handicap o una risorsa?
Dipende con che spirito si affronta questa “seconda vita”.
Se la si prende troppo sul serio, coltivando sogni di notorietà e ricchezza, è un handicap: perché per diventare famosi e ricchi, oltre al talento (e a qualche grosso colpo di fortuna, perché c’è in giro tanta gente che scrive bene) serve tempo, e la persona matura non ne ha davanti tantissimo.
Se la si prende invece come un grande, bellissimo hobby, è una risorsa, perché consente a una persona non più giovane di esprimere la propria immaginazione.
Viaggiare e lavorare fuori della Sicilia ti ha dato una chance in più per allargare la tua cultura e percepire meglio l’identità del luogo natale?
Assolutamente sì. Ho lasciato Palermo nel 1970 per vivere tre anni a Catania, poi di nuovo Palermo e nel 1978… Iran, durante la rivoluzione khomeinista, con moglie e figlio di 5 anni. Poi l’Egitto, sempre con la famiglia per sette anni; e poi base a Roma, ma con tutto il lavoro all’estero – soprattutto Nordafrica, Medio Oriente ed Est Europa. Però durante tutti questi anni ho avuto la fortuna di potere sempre trascorrere un paio di mesi l’anno a Palermo, cosa che mi ha permesso di non perdere le radici. Anzi, di capirla forse meglio di chi ci abita stabilmente.
Perché?
Come per i quadri, se ci stai molto vicino ne cogli perfettamente ogni dettaglio, ma non l’insieme. Standoci lontano, apprezzi bene l’insieme e puoi paragonare il quadro ad altri, ma non metti a fuoco i dettagli. Fare continuamente avanti e indietro, come è successo a me per quarantacinque anni, mi ha permesso di combinare le due visioni.
La creatività artistica di un autore trae giovamento dal percepire gli “odori”, come li chiami tu?
Anche in questo caso, assolutamente sì. Una delle cose che mi hanno affascinato del Cairo è stato il ritrovarvi lo stesso odore di “ogghiu fitusu e paredda sfunnata” dei nostri panellari – ma anche gli stessi muri piastrellati e le vetrinette con le fritture in bella mostra. Va bene, li friggevano ta’amiya (polpette vegetali a base di fave) invece di panelle, ma la cuginanza c’era, e come. Anzi approfitto per chiedere, soprattutto ai lettori siciliani, se sanno che il Cairo fu fondato da un grandissimo condottiero nostro conterraneo: Jawhar El Siqilly, letteralmente “Gioiello il Siciliano”. Un eroe conosciuto da tutti gli arabi ma di cui noi, suoi compatrioti, non sappiamo nulla.
I tuoi personaggi, soprattutto il commissario Mancuso, superano gli ambiti territoriali proprio per questa tua visione allargata?
Mancuso è commissario della Omicidi a Palermo, una città abbastanza grossa e per di più capoluogo di una regione in mezzo al Mediterraneo; è naturale che abbia qualche occasione di interagire con realtà che lo portano, di tanto in tanto, a fare un salto all’estero. Soprattutto oggi che un certo estero si sta avvicinando a noi sotto la spinta degli avvenimenti che stanno insanguinando il Nordafrica e il Medio Oriente.
Autori noti come Camilleri, pur vivendo fuori dalla Sicilia, secondo me si concentrano troppo sulla sicilianità e proprio per questo sono costretti a inventarsi un linguaggio letterario che non ha riscontro nella realtà. Condividi questo giudizio?
Capisco cosa vuoi dire. Per la verità non penso che Camilleri sia stato costretto a inventarsi un linguaggio letterario. Probabilmente conosce abbastanza il siciliano della sua zona, e se no avrebbe potuto scrivere i libri in italiano e lasciare a un bravo editor il compito di sicilianizzare qualche parola o interi dialoghi. Vedo invece un Camilleri che ha avuto il colpo di genio di coniare un linguaggio fatto di italiano, italiano sicilianizzato, parole veramente siciliane e altre pseudo-siciliane; dove le siciliane sono più che altro empedocline, e le pseudo siciliane sono quelle che lui stesso chiama “siciliano reinventato”. Un approccio unico, che molti editori avrebbero considerato fallimentare perché fastidioso per il lettore – sia per quello siciliano, deluso da un dialetto mezzo fasullo, che per quello “continentale”, frustrato dal continuo esercizio di decrittazione… e che invece la grande Elvira Sellerio capì e sostenne.
Tu hai scritto prevalentemente gialli, ma dimostri anche una notevole vena umoristica. C’è una connessione tra questi due generi?
Potrei cavarmela citando il detto “Non c’è morte senza riso né matrimonio senza pianto”… ma credo che la connessione, quando c’è, passi attraverso il carattere dell’autore.
Ho conosciuto una persona allegrissima e dalla battuta sempre pronta che aveva una ditta di pompe funebri.
Vivere tra Roma e Palermo ti da uno stimolo in più? Se potessi scegliere da uomo libero dove ti stabiliresti?
Dopo tanti anni di matrimonio non riesco più a immaginarmi uomo libero. Scherzo, naturalmente (mia moglie potrebbe leggere l’intervista).
Di fatto potrei scegliere, perché ho una casa a Roma e un buchetto abbastanza comodo a Mondello, ma non so decidermi. A Roma ho pochi (ma buoni) amici, mio figlio e una affettuosissima nuora che è diventata la figlia che non ho mai avuto. A Palermo ho molti buoni amici e in più nipoti a cui sono molto affezionato… e poi ci sono il pane e panelle, le arancine, il mio ristorantino di pesce preferito e, naturalmente, il mare.
Ecco perché in realtà mi sono stabilito in due città: il 65% del tempo a Roma e il 25% a Palermo. Sì, lo so, la somma fa 90%… l’altro 10% vado in giro per l’Italia a presentare i miei libri o dove mi porta qualche aereo low cost.