Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalisti indipendenti

“Prima che lo stampo della vita si spezzi”

di Redazione

Mistretta. Michelino Giaconia, un fotografo agli inizi del ’900.

di Aldo Gerbino

Nel “Ritratto di Melusina”, che apre la piccola catena di racconti L’amata alla finestra, Corrado Alvaro, parlando delle “passioni” della sua terra, riferisce del timore d’essere ritratto da una «macchina da fotografia»; un “ritegno primordiale” in cui – scrive – «mi sembra di posare per qualche cosa di definitivo, prima che lo stampo della vita si spezzi. Ma per una donna dev’esserci un altro sentimento a questo ritegno: quello di appartenere a qualcuno non ancora rivelato».

Giaconia-Mistretta 'Le vie pietrose'

Qui, i vólti di acquietati contadini, di barbuti cacciatori visibilmente plasmati dai compatti boschi nebrodensi, – aperti dai limiti madoniti oltre le serre delle Caronìe, – di mandriani reduci da ventose portelle puntate sull’arcipelago eoliano, appaiono tutti con ampiezza concretizzati. Essi, non soggetti a quell’alvariano ‘primordiale ritegno’, sono stati espunti, per volontà di fato (il ‘fato’ ha un nome: Michele Giaconia), dall’area montana di Mistretta, in coppia o singoli, per alterne generazioni e inseriti, per capillarità, con esponenti di famiglie borghesi dalla carrozza facile, accovacciati in eleganti calessi, forniti di gioiosa prole intenta ai giochi, agli svaghi, decorosamente corredata da costose macchine ludiche (automobiline a pedali, tricicli, leziosi e primitivi cavallini a dondolo). Poi, paffuti e sudaticci rappresentanti del clero, devozioni mariane in questo pietroso centro urbano su cui stillano ancora sacre gocce sanguigne dalle pulsanti ferite d’un san Sebastiano, da tempo immemore, a loro protezione. Infine: zebrati ombrellini e partite di caccia, conventicole attorno ad umili deschi per la risuolatura di scarpe o per più costosi stivaletti, a mostrare, alfine, proprio dal loro arcano retaggio di una memoria inghiottita da gelificate lastre fotografiche, quanto da Georg Simmel sottolineato, con acuta pertinenza, per le arti figurative, cioè valutare il portato interpretativo, non tanto nell’accanimento della definizione fisiognomica, quanto nell’operare con la consapevolezza di accedere al vasto e complesso scenario multisensoriale del ‘ritratto’, singolo o di gruppo; e, in maniera più estensiva, accogliere l’esercizio del ritrarre dal quotidiano palcoscenico per un arco più intimo, indagatore, del vólto umano. E se alla pittura, cui spetta il precipuo (e il più antico) compito della rappresentazione, – ma che, sotto altri e paralleli cammini metodologici, può sufficientemente essere traslato nell’arte fotografica, – per essa si accoglie il suggerimento di Simmel che quanto realmente vediamo «in un uomo» viene svelato come «elemento puramente ottico, sensibilmente percepito del suo fenomeno», e come esso non sia «affatto lo stesso che abitualmente, nella quotidianità della vita, definiamo il visibile.» Ma allora questa ambigua, dissonante, asimmetrica condizione del ‘visibile rappresentato’, in che modo può porsi, nella dimensione socio-antropologica o squisitamente artistica, in tale fondo di esiti fotografici accolti nel tempo della transizione otto-novecentesca dal nobiluomo Michele Giaconia? Senso primario, di certo, nel quale può essere ricondotto il ruolo che, tra le arti, proprio la fotografia ha svolto inserendosi, insieme all’irruenza suggestiva della cinematografia, e con forza pervasiva, in quell’incipit fondante alla costruzione d’un edificio sociale, architettonico, economico, creativo che sarà, appunto, l’Italia del Novecento. In tal modo, in virtù del fluttuare delle umane immagini, in siffatto diorama alimentato dalla passione, si proietta una minuscola sintesi dell’evoluzione dei comportamenti, di un certo vago ma già indicativo cammino sociale: dignitose microeconomie nutrite dal cauto benessere delle aristocrazie costiere, irraggianti, per postura, abbigliamento e miscela mimica, quel dialogo, – non sappiamo quanto intenso o quanto epidermico, ma ineludibile comunque nella sua fattualità, – con quella parte di società sottomessa all’indubbia durezza del lavoro.

E son figure che Michelino Giaconia accoglie sospinto da un sincero afflato documentario, ma anche da un solido trasporto emotivo, per stipare i frutti della sua percezione nella camera memoriale di un congegno fotografico da lui particolarmente elaborato, curato, avviato alla tassonomia del territorio (lo testimoniano i materiali per la schedatura) e confezionando, in quell’alba del Novecento (nei suoi primissimi decenni), un vibrante documento di esistenze (Mistretta- Museo ‘Giuseppe Cocchiara’). In seguito spalmando, lungo le orientali marine sicule, ogni visione naturalistica e immergendola nella ghiaccia reale del bianconero, proprio nel momento in cui i fiati della civiltà agropastorale accumulavano le ultime energie, prima d’essere inesorabilmente spenti dall’età del consumo in cui la foto poteva essere considerata, – così l’ungherese Arnold Hauser nelle sue “Teorie dell’arte”, – «soltanto merce», per quella sua sostituzione di «un originale assolutamente non riproducibile nella sua integrità». Ecco, allora, come la ricezione di uomini e cose, il solido e metafisico ingresso nel paesaggio o nei centri urbani, si confonde tra le colline, nelle auree trame delle ‘belle spiagge’, affinché i prodotti possano navigare e condensarsi in un ri-creato gusto della visione, in un rinnovato punto di vista, in una scoperta di fughe prospettiche capaci di restituirci quelle intorpidite ‘città del mondo’ rese un tempo, dalla profondità mitico-realistica di Elio Vittorini, vivida materia letteraria, necessità e volontà di rammemorazione, e, come ha ricordato Girolamo Cusimano, giustificata urgenza di ‘tutela’e filologica ‘archiviazione’.

Gesti intrisi di geografiche idealità pronte a riportarci alle scorribande, per anonime pagine tardo secentesche, d’un Teatro delle Città Reali di Sicilia in cui, il bel recinto del Val Demone scorre da Cefalù a Patti a Traina, e, pur nell’incompletezza dei luoghi, si avverte, come una fiamma improvvisa, l’icona della sveva e vaporosa “Città Imperiale”. Non a caso questa terra, da cui è gemmata la gesuitica commedia di Tommaso Aversa o i demoniaci venti del ‘mazzamareddu’ del sensibilissimo allievo del Pitré, Giuseppe Cocchiara (ne era a conoscenza lo stesso Gustaw Herling-Grudziński), o i fonemi iranici di Antonino Pagliaro, restituisce, nella loro pienezza, non soltanto immagini di montanari mescolati alla borghesia, godibili nella loro profondità nebroidea o nella variabilità incisa delle stagioni, ma anche ne sottolinea quell’ottica borghese di un’arcadia persistente ed esaltata da innevati pascoli, da sottintese azzurrità riposte tra querceti e faggete investiti dal piceo volo dei cormorani. La visione d’impatto s’intreccia, dunque, con liquidità silenti: golfi, insenature, barconi da pesca ornati da rudi tele per vele latine; orme paesaggistiche sinergicamente oscillanti – così l’estetica di Rosario Assunto – tra «finitezza chiusa» e «infinità illimitata», per poi sfociare negli squarci che attendono più di frequente al mondo del lavoro e allo svago: corse in velocipedi, primi traguardi per barcollanti ciclisti, lo scoppiettio asmatico di motori d’auto. Poi s’intercalano icone dal sapore post-umbertino: l’aula scolastica vestita d’una vaga patina deamicisiana: carte geografiche, un minuscolo mappamondo per un pianeta ancora avvertito come immenso, il profilo ligneo d’una thonet, l’espressione rigida dell’educatrice, ma non privata di un’allure rassicurante, e quella compunta di un ordinato scolaro, mentre, da fuori, tra le pietre levigate dai venti del Sud, sembrano filtrare grida gioiose di ragazzi a dorso d’asino, altri vestiti alla marinara, altri su esili tricicli, tutti bimbi, fanciulle d’un ceto possidente che vivono con un certo sussiego la dimensione rurale, ignari, pur contigui, delle crude stringhe dell’indigenza.

Da qui, infine, si ritorna al mare, tra gli umidi ciottoli, levigati nelle svariate forme quasi in colori di pelle animale; e tornano, commoventi e veri, tra le chiglie un po’ incupite delle imbarcazioni, quei versi di Vann’Antò date alle stampe nel 1955 e inclusi nella Madonna nera che Scheiwiller ripubblicò nel 1986. Essi, compresi nella poesia “Contadini al mare”, malinconicamente raccontano, della loro gioia infantile a contatto, proprio sulle coste del messinese, con le acque marine; ma poi – si dice – «ad un tratto si fanno / gravi: e a lavarsi tornano / umilmente, ridicoli… / perché si vergognano / di trovarsi felici / senza lavorare.» Le foto di Giaconia, anche di questo parlano, pur di sbieco, proprio nell’assenza di popolani bagnanti; e si muovono tra i sospiri lievi di ragazze pensose e i corpi tozzi di uomini per le strade di Mistretta, o i convegni dei ‘civili’ tra agi e scampagnate, o il frastuono delle autovetture che guadagnano spavalde le strade borboniche, magnificando, con irrefrenabile tenacia, la divaricazione temporale tra società in progressivo allontanamento. Risentire, quel silenzio che musicalmente abitava il paesaggio sonoro dei Nèbrodi, non sarà più possibile; il muschio degli anni ha steso il suo perenne filtro di lacerati suoni i quali percorrono, sibilanti, la virtualità di nuovi vólti, di nuovi paesaggi, d’altre futuribili vestigia.

 

 

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