I Cantieri Culturali alla Zisa di proprietà del Comune di Palermo dal 1995, adibiti a spazio culturale, nonostante tutti gli sforzi mancano di un’identità, non sono accoglienti e attraenti di per sé, come pure sono stati e hanno il potenziale per essere.
di Fabio Vento
E’ così qualche tempo fa, nell’atrio di un centro commerciale di Palermo, è stata allestita una mostra d’arte. L’autore delle opere, al secolo Andy Warhol, probabilmente non avrebbe avuto a che ridire: «Ho cominciato come artista commerciale e voglio finire come artista del business» ripeteva divertito, convinto com’era che la sua arte dovesse essere “consumata” non diversamente da un prodotto commerciale.
Eppure non è questa la cosa più interessante. E’ più stimolante osservare come questa “trovata” faccia parte di una strategia complessiva, di un tentativo che accomuna tutti quei luoghi che nascono ai margini e in contrapposizione alla città. Il tentativo di costruirsi come spazio sociale, di acquisire personalità. E’ proprio questa la vocazione dei centri commerciali: non già semplici contenitori, ma – con le proprie piazze e arterie – città essi stessi, dove sia desiderabile anche stare e ritrovarsi.
Quanto gioverebbe tale strategia, c’è da chiedersi, in una politica ragionata di gestione degli spazi pubblici? Parlando di contenitori, a Palermo ce n’è un altro e di ben diversa natura: i Cantieri Culturali alla Zisa.
La storia è nota più o meno a tutti. Già dalla fine dell’Ottocento sede del prestigioso mobilificio Ducrot, l’area – posta all’interno del quartiere Zisa e composta da una quarantina di capannoni – venne acquistata nel 1995 dal Comune di Palermo e adibita a polo culturale. Proprio lì, in pochi anni, si infiammò una stagione inedita della vita cittadina: mostre d’arte, dibattiti, rassegne teatrali e musicali diedero respiro a una vocazione internazionale da troppi anni dimenticata. Nel progetto – osservato in vario modo dai critici, comunque meritorio negli intenti – di ridare a Palermo la sua “primavera” dopo le stragi di mafia, la cittadella dei Cantieri e le sue distintive architetture industriali di inizio Novecento divennero un’oasi privilegiata. Se non proprio simbolo tout court.
Poi, all’inizio degli anni Duemila, una sindacatura nuova e di segno opposto. E con essa l’abbandono da parte delle istituzioni: anche questo, forse, gesto simbolico. L’Institut Français, il Goethe-Institut, il Centro Sperimentale di Cinematografia, l’Istituto Gramsci Siciliano rimasero isolati presidi – notevoli presidi, d’accordo – in una realtà ormai svuotata di vita e di senso.
Occorrerà attendere il 2012 perché qualcosa torni a muoversi. Per poche settimane un movimento spontaneo di cittadini e associazioni – si faceva chiamare “I Cantieri che vogliamo” – tornò sul luogo e provò a rianimarlo d’arte e di vita. Un gesto dimostrativo e insieme un guanto lanciato alle amministrazioni locali. Quando, pochi mesi dopo, il sindaco della “primavera” tornò sullo scranno, non potè ignorare le tante aspettative espresse e inespresse.
Vittorio de Seta e Zac
Qualcosa da allora si è fatto. Oggi nel plesso dei Cantieri c’è un cinema pubblico, il Vittorio de Seta, riaperto dopo anni di abbandono e affidato alle associazioni culturali della città: da diversi mesi è sede di rassegne cinematografiche d’essai. C’è ZAC – Zona Arti Contemporanee, padiglione adibito ad esposizioni artistiche che già – con la recente mostra di Hermann Nitsch – ha fatto discutere. C’è la sostanziale disponibilità degli spazi per iniziative culturali e ricreative, com’è stato per il Pride nazionale del 2013.
Nel complesso, però, le attività organizzate all’interno della cittadella appaiono isolate e frammentarie. I Cantieri mancano ancora – per tornare a quanto detto all’inizio – di un’identità, non sono accoglienti e attraenti di per sé, come pure sono stati e hanno il potenziale per essere.
Nulla cambierà finché le istituzioni si limiteranno a concedere spazi al privato di turno: serve un progetto complessivo di valorizzazione del luogo, che vada oltre la contingenza del qui e ora. Tanti vantaggi ne deriverebbero: oltre al peso simbolico di un grande plesso culturale nel cuore della città, si riuscirebbe a connettere in una rete più solida, meno volatile, quei soggetti che ai Cantieri ci sono già.
C’è qualcosa che, più di tutto, incarna la frammentazione di questo spazio. Ed è proprio quel lungo corso che, dall’ingresso dei Cantieri, si diparte verso l’area dei capannoni. Una strada deserta, anonima, che nulla anticipa del film, della mostra, della manifestazione che magari proprio quella sera, per poche ore, animerà un padiglione ancora lontano alla vista. Superare questo vuoto – fisico, cognitivo, inevitabilmente emozionale – sarebbe forse il primo passo verso la rinascita di una città nella città che tanto, ancora, potrebbe offrire.