Trecento anni di grandissima pittura in esposizione a Palazzo Sant’Elia
di Salvo Ferlito*
Un esaustivo compendio della migliore pittura italiana fra Quattrocento e Settecento. Benché centrata prevalentemente sulle arti figurative venete (ma con qualitative incursioni per lo più in ambito toscano), la bella mostra in atto a Palazzo Sant’Elia – Capolavori che si incontrano, Bellini, Caravaggio, Tiepolo e i Maestri della pittura dal ‘400 al ‘700 nella collezione della Banca Popolare di Vicenza – offre infatti un’imperdibile occasione di poter prendere diretta visione di quel progressivo e fertilissimo evolversi di tecniche, stili ed iconografie, magistralmente verificatosi nella nostra penisola fra primo Rinascimento e tardo Barocco.
Strutturata per tematiche specifiche (Imago magistra, L’immagine ideale, Il volto dell’idea: il ritratto, La “bella” natura), con un allestimento improntato ad un’ottica comparativa che consenta anche l’accurato raffronto sul modo di trattare analoghi soggetti da parte di artisti di epoche diverse (il che però non evita qualche stridore visuale, dovuto qui e là ad eccessivi salti temporali), la mostra principia non a caso con una serie di dipinti raffiguranti la Madonna e il suo divino figlioletto (autentico “topos” della pittura occidentale dei secoli trascorsi), e in particolare con una Madonna col bambino di Filippo Lippi (tempera su tavola del 1433-1434 o del 1436), preclaro e paradigmatico esempio di quel raffinato e leggiadro primo Rinascimento toscano in cui l’ormai completa padronanza della prospettiva si sposava pienamente col vagheggiato recupero degli ideali (e forse anche troppo idealizzati) exempla offerti dalla classicità greco-romana. Ad affiancarla, in un congruo confronto fra differenti declinazioni localistiche e temporali, la tavola di analogo soggetto del vicentino Bartolomeo Montagna, non per nulla dipinta a olio quasi un secolo più tardi (e ormai del tutto intrisa di echi classicisti), e soprattutto la Madonna col bambino di Giovanni Bonconsiglio (del 1497), ove – esemplarmente – le intuizioni del nostro Antonello da Messina (anch’egli operante per un periodo in ambito lagunare nel secondo ‘400) paiono ben amalgamate con i successivi sviluppi giorgioneschi, a chiara attestazione di come la diffusione, l’ibridazione e la contaminazione di stili e di linguaggi (il nomadismo e il meticciato culturali di cui tanto si ciancia oggigiorno in riferimento alla fin troppo mitizzata “globalizzazione”) esistessero ancor prima della nascita di internet, della televisione e degli attuali e rapidissimi mezzi di locomozione. Un dato – quest’ultimo – ampiamente e ulteriormente confermato dalla splendida crocefissione di Giovanni Bellini, Crocifisso in un cimitero ebraico (Crocifisso Niccolini da Camugliano, tempera grassa su tavola del 1480-1485), vera e propria star di questa esposizione, che costituisce un altro chiarificatore esempio di quell’interscambio sud–nord, fra la pittura Antonelliana (con l’intermediazione del realismo lenticolare e della tecnica ad olio di derivazione fiamminga) e quella lagunare fra fine ‘400 e primi ‘500 (per l’appunto dominata dal cosmopolitismo estetico dei Bellini e dall’insorgente rivoluzione del colorismo “tonale” giorgionesco), straordinariamente foriero del qualitativo evolversi di tecniche e linguaggi in territorio veneto e non solo.
Una crescente centralità – quella acquisita dalla pittura veneta proprio a partire dai raffinati raggiungimenti dei Bellini – di cui dunque questa mostra dà largamente conto, evidenziando il significativo influsso da essa esercitato, sin dal primo ‘500, sugli sviluppi delle arti figurative non soltanto italiane ma anche internazionali. Pur non essendo presente in esposizione alcun dipinto di Tiziano – che di tale rilevante influenza del colorismo veneto è stato uno dei principali artefici e promotori –, tuttavia l’allestimento fornisce l’inoppugnabile testimonianza – soprattutto attraverso i bellissimi dipinti di Tintoretto e dei suoi familiari, e grazie alle suggestive tele dei Bassano – di come certo peculiare luminismo (con i tipici effetti chiaroscurali che tanta importanza hanno avuto nella definizione dei caratteri salienti del naturalismo seicentesco) nonché l’inconfondibile stesura via via più libera e pastosa (cui si attribuisce il lontano innesco di quei processi tecnico-linguistici che esiteranno nel libero fluire della pennellata impressionista) abbiano contribuito innegabilmente ad imprimere una impronta decisiva all’andamento della pittura nei secoli a venire.
E’ infatti sufficiente volgere lo sguardo all’intensissima e drammatica Coronazione di spine del Caravaggio (del 1602-1603), al suo marcato e simbolico impianto chiaroscurale, a quel caratteristico e sapiente gioco di luci e tenebre che la impregna e contraddistingue totalmente (da sempre considerato una cifra stilistica del Merisi, con la luce della “grazia vivificante” che irrompe da una fonte laterale a inquadrare i personaggi in odor di virtù e santità, e con le “tenebre della perdizione” a circonfondere chi è insensibile alla grazia del divino), per coglierne appieno la naturale filiazione da prodromi ben evidenti e percepibili nella pittura veneta dell’intero ‘500; e cioè da quelle intuizioni che caratterizzarono l’operato più maturo del grande Vecellio (si pensi alla seconda versione della Incoronazione di spine) nonché da quelle a seguire presenti nelle tele di alcuni dei suoi migliori epigoni, quali i già citati Tintoretto (il più noto Jacopo e poi Domenico Robusti) e i tre Bassano (per l’esattezza, Jacopo, Leandro e Francesco dal Ponte). Se del Tintoretto (Jacopo, per la precisione) non è purtroppo presente in esposizione alcuno dei teleri (come L’ultima cena del 1594) in cui tale magistero nei confronti del naturalismo caravaggesco è di fatto più evidente, dei Bassano invece è possibile ammirare svariati quadri (una mezza dozzina circa) nei quali anche un occhio meno attento ed avvezzo alle disamine accurate potrà intercettare delle chiare relazioni “causa-effetto” e trovare ampio sostegno all’ipotesi (mai provata però da documenti) d’un diretto “abbeveraggio” di Michelangelo Merisi alla “fonte lagunare”. Basti qui citare l’Annuncio ai pastori di Francesco dal Ponte (un olio su tela dipinto prima del 1578) o ancora l’Orfeo incanta gli animali con il suono della lira di Jacopo (olio su tela del 1585 circa) o infine il sontuoso Lazzaro alla mensa del ricco Epulone realizzato a “quattro mani” da Jacopo e Leandro (anch’esso un olio su tela del 1578-1580), per percepire con chiarezza quanto la “tavolozza” del Caravaggio si sia assai ben affinata alla luce della “lectio” veneta.
Una “lectio magistralis” che gli artisti veneziani (e dei dintorni) hanno saputo decisamente ben tenere in ogni ambito tematico, lasciando tracce e reliquati della loro gran perizia e valentia anche in narrazioni per immagini ritenute in quei tempi (almeno secondo le categorie del marchese Giustiniani, noto collezionista dei primi del ‘600) molto meno prestigiose di quelle di carattere religioso, storico o mitologico-allegorico. Così, proseguendo fra ritratti di gentildonne e gentiluomini, in cui l’obbligo di fedeltà fisiognomica viene coniugato con le esigenze celebrative ed encomiastiche proprie dell’epoca (paradigmatico a tal proposito quello fastoso del Doge Nicolò da Ponte, attribuito alla mano di Jacopo Robusti, ovvero il Tintoretto, del 1580), mirabili nature morte, ove l’impianto palesemente naturalistico si sposa con una vasto repertorio di allusioni allegoriche (guardare l’affastellarsi d’ogni sorta d’oggettistica nel già citato Lazzaro alla mensa del ricco Epulone, autentico antesignano, non meno delle opere dei Campi in Lombardia, di quel nuovo filone della pittura di lì a poco inaugurato dal Figino, dai Carracci e ovviamente dal più noto Caravaggio) ed ampie aperture paesaggistiche (le esemplificative tele di Marco Ricci e Giuseppe Zais, che attestano l’incipit seicentesco e il consolidarsi settecentesco del paesaggio come ambito a sé stante), la mostra esibisce tutta una sequenza di probanti dipinti di notevole bellezza e grande qualità, consentendo ai visitatori una esaustiva ricognizione dei generi più in voga e soprattutto dei peculiari stili e delle specifiche modalità di narrazione.
Una panoramica – come già detto – in grado di ricostruire fedelmente le tappe più significative della pittura italiana dei secoli trascorsi alla luce del rilevante apporto degli artisti veneti, e contestualmente di analizzare e rendicontare i gusti e gli orientamenti d’una ristretta cerchia di committenti ed estimatori (per lo più aristocratici ed ecclesiastici), facendosi specchio veridico di quelle idealità (politiche e dottrinarie) cui erano improntati i rigidi assetti d’una organizzazione e divisione sociale dai connotati – non lo si dimentichi mai – comunque profondamente ingiusti ed elitari.
L’esposizione, curata da Fernando Rigon col contributo critico di Annalisa Lombardo e ovviamente sostenuta dalla Banca Popolare di Vicenza, sarà ancora visibile fino al 6 gennaio 2016, dal martedì alla domenica (tranne i festivi), dalle 10 alle 18,30.
*critico d’arte