Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalisti indipendenti

Funamboli e Sirene

di Redazione

 

Cataloghi e Collettive. Curatori e Monetizzazione

 

di Aldo Gerbino

Il consistente incremento delle produzioni figurative che si accompagnano, o meno, a collettive e cataloghi di riferimento, incombe, e, a volte, sommerge il nostro diorama visivo (Palermo, tra l’altro, è tra le vittime privilegiate), e ci dà ragione della moltiplicazione, della reiterazione incidente (anche nell’ideale beneficio del conflitto) di segni, simboli, di scenari troppo spesso usurati, di frammenti e segmenti tratti da tangibili manufatti, di primitivi elementi mixati, a volte grossolanamente, con gli attuali sistemi della comunicazione. E la ragione di tale esplosione investe l’ingresso di caleidoscopici inventari, ad uso spesso di speculazioni, per altro, già copiosamente aiutati, alimentati dall’ampiezza del ‘sistema internet, così come accade in molti, troppi, lavori pre-confezionati da abborracciati curatori, attenti, soprattutto, alle quote versate, i quali, come in un grande catino, fanno ribollire, disparatamente, ogni possibile nutriente para-estetico. Proprio da essi prendono corpo, affiorando, quali salgariane montagne di ghiaccio, varie pulsioni creative le quali protrudono da una superficie percettiva in continua, rapidissima, evoluzione, alimentando uno scenario pronto ad includere, fagocitare, senza necessità d’una quantomeno filologica tassonomia, tutte quelle urgenze (prepotentemente agitate da un motore narcisistico) che possono confermarsi come ‘voci’, presenze necessarie sulla sazia pedana del mondo. Su tale pedana, dunque, il numero di ‘facinorosi artisti’, sostenuti da una esondazione di prodotti che, in questi rutilanti lessici d’immagini, e al riparo d’una critica che intona i propri canti quali ammalianti sirene, col sostegno di compiacenti organizzatori/procacciatori di clientele, effondono, nella più esasperata multimedialità, riuscendo persino a toccare aspirazioni intercontinentali. Lavori eterogenei, maculati di eclettismo, alcuni forniti quali semplici accessori di scena (la scena d’una possibile, alternativa, macchina dell’arte popolare: popolareggiante, folkloristica), il tutto a delineare l’icona di ancestrali desideri, in quell’elaborare, forse un rafforzare, quel collante psicologico, significativo come supporto, ora del ricordo, ora d’una futuribile (probabile) crescita a somiglianza di ‘altre’ identità artistiche già consolidate, portatori di sani ed evolutivi messaggi.Bruno Caruso, Sirena

Iterazione e reiterazione, assimilazione e ridondanza, elogio spontaneo del luogo comune e ricerca di una non reperita alterità del rappresentabile, con l’approvvigionamento e l’uso di materiali promiscui che i moduli dell’arte disegnano, ancora nel tempo (in questo tempo), quelle esigenze primarie rivolte alla pluralità non classista di messaggi e che si trasformano in neoconformismo piccolo-borghese, in ricerca di effimeri cavalierati, in antropologia benevola e stucchevole, la quale ne sottintende una vacua rivisitazione di processi rappresentativi, altre volte l’incapacità a risolvere i consapevoli problemi inerenti all’evoluzione dell’arte. E, così: l’inequivocabile ingresso della noia creativa, del déjà-vu, in una stanca riproposizione di marchi e linguaggi capaci di consumarsi, rapidamente, nel falò della quotidiana performance installativa o della video-computer art; oppure, ripercorrendo improbabili rinnovamenti sulla significazione dell’arte e del territorio in cui si produce, assistendo ad improbabili incrementi dialettici ora della land ora della body art, in affannosa ricerca di plasticità o di superficiali ammodernamenti legati ad  alterne simbologie, tanto da osservarne un continuo e irreparabile malinconico arenare. Per altre vie storico-critiche, qualificatissime per altro, si ricorda che è stato George Kubler ad annotare, in quel paragrafo di “Anatomia della routine” inserito nel suo illuminante saggio The Shape of Time (1972), come «la replicazione» fosse anche, nella sua accezione originaria, «simile alla forza di coesione», e ancora come «ogni copia» possedesse chiare «proprietà adesive, in quanto mantiene uniti il presente e il passato.» Copia, dunque, come possibile valore. Tale stretto raccordo tra presente e passato, e, nello stesso tempo, la capacità proiettiva inserita nel lavorio artigianale o in quello più esemplarmente artistico ben irraggiata sulle sponde del futuro, può trovare giustificazione soltanto in quell’universo kluberiano che sembra mantenere, nel rigore evoluzionistico della téchne, «la sua forma grazie alla sua perpetuazione in forme che rassomigliano l’una all’altra» e in cui, è detto, come «la variazione illimitata è sinonimo di caos.» In tal modo sembra estremamente complesso, difficile, cogliere l’atto genuino d’una espressione creativa; d’altronde, è specificato, che «nella vita di ogni uomo il numero di atti rituali compiuti ogni giorno è largamente superiore alle poche azioni varianti o divergenti che gli sono permesse. In verità, ognuno di noi è talmente ingabbiato negli schemi dell’abitudine che è quasi impossibile sbattere il muso in un atto inventivo: siamo come dei funamboli che forze poderose mantengono attaccati alla fune in modo tale che, anche volendo, non possiamo cadere nell’ignoto.» Raggiungere, allora, il salto verso l’originalità, il passo-avanti verso l’ignoto creativo e rivoluzionario, significa che bisognerebbe lasciarsi cadere dalla fune, rompere la forza gravitazionale delle abitudini che ci tiene legata ad essa.

Il groviglio, le suggestioni dei nuovi linguaggi comunicativi (spesso banalizzanti), pervadono, dunque, la sensitività delle arti figurative, in un oscillare tra dimensione tradizionale, rivisitazione e acritica iconoclastia. D’altronde l’uso di materiali forniti dall’attuale secrezione industriale: dalla fotografia alla pubblicità al design, vengono in gran numero rimasticate, rese indigeste e riconsegnate alla visibilità più spicciola e al ‘famismo’ speculativo di curatori sempre più virali: per bivacchi di un improbabile postmoderrno, per materiche annotazioni e tardive fascinazioni optical. Il tutto, comunque, vaga e si converte in suggerimenti privati dalle voci, in aspirazioni, in frange della realtà colte in continue divagazioni tautologiche, in patologie del gusto contemporaneo votato alla superficialità, alla velocità ossessiva della riflessione, anche in quelle avanguardie che desiderano saltare il fosso dalle affollate trincee della produzione artistica, annaspanti, però, nella nube del consumo, non convinti del salto nell’abisso, non sentendo il suono che da questo (lo ricorda un verso di Giulio Arcangioli) incanta il cercatore.

 

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