Le proteste avanzate sia dagli stranieri sia dagli autoctoni dimostrano quanto il lavoro di mediazione da fare con il quartiere in cui sorgono questi centri di accoglienza migranti sia importante se si vogliono scongiurare atti di violenza
di Walter Nania
La cronaca degli ultimi mesi e le analisi spesso poco approfondite dei commentatori tendono ad alimentare reazioni scomposte e a fomentare luoghi comuni. Percorrendo le strade che da via Maqueda conducono al mercato di Ballarò durante la manifestazione contro la violenza promossa da SOS Ballarò e da tutte le realtà che operano nel territorio dell’Albergheria, ho sentito esprimere commenti a sfondo razzista nei confronti di una presunta difesa dei manifestanti di alcuni privilegi di cui godrebbero gli stranieri ospiti nei vari centri della città.
Si tratta di un pensiero diffuso e strisciante anche in occasioni, come quella di Sabato scorso, in cui gli organizzatori non hanno fatto riferimento diretto a temi legati al razzismo. Temi emersi anche all’indomani della protesta dei migranti in via Monfenera, nel villaggio Santa Rosalia a Palermo.
A gestire il centro è l’associazione Asante che a partire dallo scorso Dicembre ha già accolto più di 120 minori. L’accoglienza sin dai primi momenti non è stata facile, perché la struttura, un ex-albergo, è stata aperta in tempi molto brevi per far fronte alla crescente pressione per far fronte ai minori sbarcati al porto. In assenza di fondi adeguati e senza predisporre progetti ad hoc per soggetti così vulnerabili, il centro ha assunto da subito una funzione di contenitore dell’emergenza, costringendo l’associazione a fronteggiare eventi sempre più difficili da gestire e in un contesto di assenza istituzionale.
Così è accaduto che a Pasquetta, i minori appena sbarcati siano stati inseriti nella struttura che già ne ospitava altri. La situazione esplosiva ha visto stipati negli ultimi tre mesi 250 persone in un unico centro alla presenza di due soli operatori notturni.
I termini di permanenza all’interno dei centri dovrebbero essere di 60 giorni, prorogabili a 90, ma spesso accade che i tempi si protraggano, così da far giungere i giovani alla maggiore età senza che vengano attivati i percorsi di protezione e di inserimento. Riavviare queste pratiche da maggiorenni significa perdere le tutele previste per i minorenni, suggerendo implicitamente la via più breve, quella della fuga. Quindi risulta chiaro che un procedere simile incentiva il minore all’allontanamento e più in genere a sfuggire al sistema di protezione. Dunque ai minori già presenti nel centro si sono aggiunti quelli arrivati a marzo, esasperando gli animi dei primi arrivati.
A Pasquetta è intervenuta la polizia per sgombrare la strada bloccata dai migranti, ma anche per sedare gli animi esasperati degli abitanti del quartiere. Se gli ospiti hanno raccontato che non sono stati distribuiti kit di prima accoglienza, abbigliamento adeguato, che mancano i mediatori, linguistici e culturali, le loro proteste sono state lette dagli abitanti come violenza al territorio e alle tradizioni. Alle proteste dei migranti sono seguiti alcuni trasferimenti e mentre i minori tendono a scappare perché con poche speranze e senza risposte alle loro esigenze, le proteste da ambo le parti – stranieri e autoctoni – sono esempio di quanto il lavoro di mediazione da fare con il quartiere in cui sorgono questi centri sia importante tanto quanto una accoglienza degna nei confronti dei migranti, se si vogliono scongiurare atti di violenza che affondano le radici in una guerra tra categorie sociali ed economiche svantaggiate che insistono in uno stesso territorio.