La canzone del mare è una chicca d’animazione, uscita nelle sale cinematografiche italiane il 23 giugno, donataci dal regista, animatore e sceneggiatore irlandese Tomm Moore.
di Liliana Serio
Song of the Sea (questo il titolo originale del cartone) segue e reinterpreta in chiave moderna la lezione del grande maestro giapponese Hayao Miyazaki che comunica al mondo intero, con le sue incantevoli opere, temi universali pregni di significato e di poesia.
Nel 2010 il cartoon The Secret of Kells di Moore viene candidato all’Oscar nella categoria “Miglior film d’animazione”, la nomination non si fa attendere e premia anche La canzone del mare, sua seconda prova che non delude ma convince sempre più. Il regista che con il suo lavoro rende omaggio alla tradizione folkloristica del suo paese, vede sfumare per un soffio l’ambito premio, assegnato agli Academy Awards 2015 a Big Hero 6.
Poco importa. La ricchezza espressiva de La canzone del mare, la semplicità dei disegni che evocano mondi meravigliosi, in unione con il suo spessore narrativo, conquistano il pubblico senza distinzione d’età e innalzano questo film d’animazione al di sopra dei cartoni-catena-di-montaggio che negli ultimi anni affollano le nostre sale cinematografiche nella vana speranza di eguagliare, o per meglio dire, emulare il genio di Walt Disney o l’originalità narrativa della Pixar.
Trama de La canzone del mare
Su un’isola dell’incantevole Irlanda si svolge la nostra storia. Il piccolo Ben incolpa la sua sorellina Saoirse di essere la causa della prematura scomparsa della mamma Bronagh, inghiottita misteriosamente dal mare quando dà alla luce la sua secondogenita. Le ultime parole della mamma, una profetica promessa, sono rivolte a Ben: «sarai un ottimo fratello e per questo saprai prenderti cura di tua sorella».
Distrutto dal dolore e dalla perdita, Conor, il papà dei piccoli, teme soltanto che la bambina possa abbracciare e condividere il destino della mamma: essere una selkie, ovvero una pura creatura del mare capace di trasformarsi in foca. Quando gli occhi di Ben iniziano a non vedere allo stesso modo la piccola Bronagh, per lei ha inizio una missione epica.
Tra mito e tradizione
Mito e tradizione, ecco di cosa profuma La canzone del mare. La saggezza delle storie antiche, dalle quali è importante cogliere le verità che portano con sé, come se fossero un leggero fagotto poggiato sulle spalle. La memoria, il viaggio, l’eroismo, la generosità, l’altruismo, la forza: ecco ciò che va difeso caparbiamente, oggi più che mai. Ed è questo che fa il regista Tomm Moore.
Si impegna a far rivivere le selkie, che nella antica mitologia erano foche in grado di trasformarsi in esseri umani, mantiene salde le radici con la sua terra di origine, e ambienta una tenera fiaba nel cuore del cultura irlandese. Questo ci fa pensare ad un altro grande regista, a cui lo stesso Moore conferma di ispirarsi, che già da tanto tempo porta avanti questo percorso artistico. Il progetto di Tomm Moore è ambizioso, e come avrete capito guarda lontano verso Il mio vicino Totoro del maestro Hayao Miyazaki, fondatore dello Studio Ghibli.
Ecco spiegato il perché di una narrazione fuori dai convenzionali schemi, di una particolare attenzione non solo alla direzione artistica ma soprattutto alla cura delle animazioni: bidimensionali, a mano libera (oggi rare). Ma andiamo oltre perché La canzone del mare è un lavoro incantevole per tante altre cose: per il suo stile visivo, per la scelta delle musiche che cullano con la loro delicata misura, per la ricerca del particolare, vedi il sapiente uso del tratto e del colore, per i disegni realizzati a mano, secondo uno stile a prima vista povero ma in realtà funzionale alla storia, per la delicatezza con cui importanti argomenti vendono affrontati.
L’amore: la chiave di volta
Ci sono dubbi? No. Dovremmo crederci tutti: l’amore è la chiave di volta. Il rapporto tra Ben e Saoirse è di una dolcezza commovente, contraddistinto inizialmente dalla ruvidezza del comportamento del protagonista che non perde occasione per emarginare e schernire la sorella più piccola che, nonostante tutto, prova ad attirarne le sue attenzioni.
Il film è ricco di sentimenti, alcuni dei quali più accessibili di altri, come le cosiddette emozioni negative rabbia e tristezza, ad oggi tanto discusse e attenzionate soprattutto nei bambini. Ciò che più colpisce è che gran parte dei messaggi di questa fiaba sono veicolati da una creatura muta, Saoirse infatti non parla, che con la forza del non detto cerca di impartire una poetica quanto cruda lezione: a volte la parola è inefficace, finanche inutile se non riutilizzata. Ecco allora che proprio all’inizio della fiaba Bronagh insegna a Ben una canzone, in una lingua antica ormai desueta, che ci porta al di là della magia e ci avvicina al sacro. Per non dimenticare. Cosa? Il mito, il sacro. Tutto ciò che La canzone del mare racchiude in sé: il cane Cú, il gruppo di foche che porta via Saoirse, il Grande Seanachai, il vecchio dalla barba così fitta e lunga da colmare una caverna, i cui capelli racchiudono in sé tante storie.
Qualcuno potrebbe dire che vi sono scene apparentemente forzate, altre che passano davanti così velocemente da stordire. Allora è giusto dirlo, non vi affaticate a comprendere in toto storie raccontate da visionari sognatori d’altri tempi come Moore, lasciatevi destabilizzare e rapire da ciò che è diverso, e allora senza sforzo capirete non solo cosa voglia dire contrapporsi alla moderna concezione di film d’animazione, ma soprattutto cosa voglia dire riuscire a immedesimarsi e a calarsi in un mondo diverso dove si svolge l’avventuroso viaggio, non facile, non sempre felice, di Ben e Saoirse.
Sostenere e apprezzare lavori come La canzone del mare, realizzato con un modo di fare animazione ormai “marginale”, è un atto doveroso verso noi stessi volto a depurarci da tutto ciò che è finto e privo di anima.