Abbiamo intervistato Umberto Cantone, attore, regista, sin dal 1978 ha legato il proprio nome al Biondo Stabile di Palermo, di cui è stato per tre anni vice-direttore. Attualmente ricopre l’incarico di delegato della Direzione per il circuito teatrale
di Pippo La Barba
Quali costi oggi comporta mantenere un teatro pubblico?
Oggi l’idea di un teatro pubblico di prosa non mi sembra tramontata, anzi. E per quanto riguarda la gestione concreta di questa idea è auspicabile che chiunque sia chiamato a dirigere un ente culturale faccia tesoro dell’esperienza passata. Dopotutto i princìpi non cambiano, e la scommessa rimane la stessa: quella di riuscire ad assicurarsi le risorse necessarie per gestire la complessa organizzazione e la particolare economia del teatro pubblico, a patto di farlo sempre in funzione di una progettualità culturale, in rapporto col territorio e con le sue specificità.
In base al cosiddetto decreto Franceschini, nessuno dei due teatri pubblici siciliani, di Palermo e di Catania, è stato riconosciuto come “teatro di interesse nazionale”. Cosa è mancato perché la Sicilia avesse almeno un teatro di prima fascia?
In primo luogo la mediazione politica e istituzionale. Un obiettivo come questo, che prevede anche una circuitazione stabile nel territorio, non può essere lasciato in mano esclusivamente ai direttori, ma necessita del coinvolgimento progettuale dei vertici istituzionali, a cominciare dal Presidente della Regione e dai suoi assessori, sino ai Sindaci delle due città interessate.
Non hanno giocato anche antiche velleità di primogenitura tra i due stabili?
Ci sono stati dei timidi tentativi da parte dei due enti di elaborare un progetto che si adattasse meglio ai requisiti richiesti dal decreto ministeriale. Purtroppo non se ne è fatto niente, per la ristrettezza dei tempi e per la mancanza di un più incisivo intervento istituzionale. Comunque il problema è solo rimandato, perché ogni tre anni il livello acquisito viene rimesso in discussione con la verifica dei requisiti.
Cosa comporta in pratica rimanere fuori dal circuito dei teatri nazionali?
Prima di tutto una perdita di prestigio. E il prestigio per un ente culturale non è tutto, ma è molto. Tra l’altro, il riposizionamento dei due ex stabili siciliani, che sono passati alla fascia dei “ teatri di rilevante interesse culturale”, comporta alcune decurtazioni nel finanziamento, relativamente ai bonus assegnati dal Ministero ai Teatri nazionali.
Perché gli stabili accumulano debiti nonostante i finanziamenti pubblici?
Intanto i teatri pubblici non ricevono contributi, tranne in parte dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, ma semmai quote di partecipazione da parte dei soci fondatori. Nel caso del Biondo di Palermo i soci sono: la Fondazione Biondo, il Comune di Palermo e la Regione (quella che un tempo era la quota della Provincia è venuta a mancare). Comune e Regione versano le quote solo quando approvano i propri bilanci, provocando un dannoso sfalsamento dei tempi. Deve essere chiaro una volta e per tutte che l’attività di un teatro di prosa va finanziata in coincidenza con la preparazione di ogni stagione, quando vengono firmati i contratti. Se le quote dei soci non sono disponibili è chiaro che il bilancio ne soffre, che si deve ricorrere all’indebitamento bancario per l’ordinaria amministrazione, e che tutto questo produce deficit. Naturalmente non è questa l’unica ragione dell’indebitamento dei teatri pubblici, ma è una delle principali.
Spesso il Biondo è accusato di non formare attori locali e di cooptare quelli formati dai teatri privati
Non ho difficoltà a riconoscere che oggi il compito dei teatri privati è veramente eroico: hanno pochi contributi e, ahimè, al Sud, nessuno sponsor. Comunque il Biondo una valida scuola teatrale l’ha avuta e continua ad averla, anche se è vero che in passato ha utilizzato attori non sempre locali (come accade in tutti i teatri d’Italia) e provenienti da svariate esperienze. Ma la selezione degli attori nella compagnia stabile dipendeva, e continua a dipendere, dalle scelte artistiche e dalla tipologia degli spettacoli, ovvero dai testi e dal linguaggio del regista che li mette in scena.
A cosa serve una scuola di teatro?
Per me una scuola di teatro degna di questo nome deve fornire all’allievo strumenti critici, sia culturali che artigianali. E sottolineo artigianali prima che artistici, perché in Italia ci si è spinti troppo in là a furia di mettere in secondo piano l’artigianalità nel mestiere dell’attore. In atto c’è una reazione dettata da vecchie ingenuità e nuovi conformismi. Forse dipende dal fatto che, in passato, i mattatori, e i registi demiurghi hanno spesso condotto scuole troppo autoreferenziali. E in teatro, l’arte di insegnare non è sempre stata la prerogativa delle eccellenze, così come avviene nel calcio, dove i migliori allenatori non sono i fuoriclasse. Vale ancora la regola che solo chi ha una vera vocazione pedagogica riesce a trasmettere un metodo. Tra i maestri della scuola italiana, il modello ineguagliato rimane Orazio Costa. Ma gli esempi, in teatro, devono servire solo a proiettarci nel futuro.