«Venivan poi le donne, tenendo quasi tutte per la mano una bambina, e cantando alternativamente il Miserere; e il suono fiacco di quelle voci, il pallore e la languidezza di que’ visi eran cose da occupare tutto di compassione l’animo di chiunque».
[Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, cap. XXXVI]
Benefacit animae suae vir misericors
[Prov. XI, 17]
di Aldo Gerbino
La parola ‘misericordia’ insiste prepotentemente in questo nostro tempo: tempo del dolore, di soffocate speranze, tempo della liturgia, di odî profondi e desideri di pace. Vorremmo, seguendo le parole del Manzoni – tutt’altro che fuori tempo – «occupare tutto di compassione l’animo di chiunque». Senso della parola e “suono del senso, nel modo in cui lo volgeva William Carlos Williams, sono esigenze, urgenze, che vengono poste proprio dalla crudezza del nostro quotidiano vissuto. “Perdono” e “dono” vivono in simbiosi, come l’ulivo e l’uomo meridiano.
Ed è la corda del cuore ad alimentare il senso del perdono, e, con esso, a restituire il senso della parola che assolve, la gioia intima di un donare mondato dalla vanità. Senso della parola come, non conclusivo, è inteso da Romano Guardini nelle sue Cose ultime (1940), e dove si dice in che modo la «perdita di una parola» sia «molto più grave dell’incomprensione che può nascere durante una conversazione. Si perde una di quelle forme in cui l’uomo esiste. Si oscura uno di quegli indicatori che gli consentono di procedere rettamente. Si spegne una luce, e il suo giorno spirituale si offusca.» Offuscamento, quindi, di un proprio “giorno spirituale”, e, con esso, perdita irreparabile di quelle parole, di quelle idee capaci, nello loro purità ideale e sacra, di comprendere le sofferenze del prossimo. Un dare, dunque, – sospinti da tenace volontà di compassione e commistione agli umani esercizi, – in maniera totale, senza infingimenti. Per alterni cammini estetici, morali e spirituali, leggiamo tali urgenze sin dalla poetica dannunziana, o in quella generosamente covata nella materna lingua d’un Emilio Morina (1888-1981), medico e poeta di Agira, poi attivo a New York, carico, nella dizione critica di Salvatore Camilleri, di «una pietas cristiana», alimentatore del suo misereor (‘ho pietà’) in una «poesia serena, quasi un paesaggio dell’anima», come appunto può dipanarsi dal suo Chiù dugnu ~ chiù sugnu, ripubblicato da Cavallotto nel 1979 e accompagnato dall’emotiva prefazione di Fortunato Pasqualino, il quale espunge da questi versi «l’intera storia dell’umanità».
Una ‘storia’ che era «nei proverbi biblici. Era, con forme diverse in Lao Tse, in Cina. Rispunta in Lope de Vega, col pensiero che “L’Amor solo donando ottiene”. È ripreso nei famosi versi di Coleridge: “Noi, Signora, riceviamo ciò che doniamo”; e nuovamente poi del nostro Gabriele D’Annunzio nel personalissimo “Io ho quel che ho donato”», e così, con Morina, è possibile «entrare nella sfera dell’essere». In ogni caso, dunque, si sostanzia, proprio nell’atto misericordioso, quel dialogo capace di ri-creare spazio e scenario santo della donazione, immersa nella compassionevole intimità del pascoliano atomo opaco del Male secreto nella poesia “X agosto” di Myricae (1897), oppure all’interno della malattia, della indigenza, per quell’offrirsi quale insostituibile lenimento in quanto ‘parte vitale’ di se stessi. È ciò che registriamo nelle parole di Piero Bargellini scandite sino all’icasticità, centrate verso quel bersaglio lucidissimo di sentimenti e chiarità di analisi critica e psicologica, e consegnate, nel saggio introduttivo, ad un intellettuale tanto controverso quanto vero: Giovanni Papini. E le rileggiamo nel volume mondadoriano che raccoglie poesie in versi e in prosa e vari interventi, Poesia e fantasia del 1958, facente parte dell’«Opera Omnia». Si parla del temerario, irruente Papini, della sua Storia di Cristo, e, con essa, di quella Preghiera a Dio in cui «Celestino VI chiedeva ancora un supplemento d’amore, perché ogni resistenza di male fosse travolta e ogni oscurità di peccato fosse dissolta.
“In nome della Tua misericordia infinita io mi appello a una seconda infinità d’amore, ad una traboccanza ed esuberanza del Tuo smisurato e incommensurabile amore.” Una “seconda infinità d’amore”, sottolinea Bargellini, «in senso strettamente teologico» non aveva alcun significato, ma «ne aveva uno chiaramente psicologico e sentimentale, da riferirsi, appunto, alla impazienza del poeta, che sotto la fittizia tiara invocava: “Apri le cateratte del fuoco, come apristi le cateratte delle nubi e del diluvio. Chiedo a Te, sole d’amore, quel fuoco che Tu solo puoi dare, alluvione di fuoco per gli uomini che sono freddi, gelidi, assiderati, ghiacciati, impietriti”». Un supplemento di misericordia, – sottinteso dallo scrittore fiorentino, – in cui anche l’entità originaria del Male, – il demonio, – potesse essere sommersa (così nella lettura bargelliniana) «non nella ghiaccia infernale, ma nel fuoco dell’infinita carità divina». Quella stessa carità divina ricercata, con l’irruenza cupa e solida dei segni tracciati, quasi scavati nella carne delle vittime della Prima Guerra Mondiale, da Georges Rouault: le 58 incisioni per il Miserere et guerre (1923), aperte, dalla prima tavola, con il Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam, in un’arcaica folgorazione di robusti marchi, letti tra le righe di quell’umanesimo integrale bagnato nella saggezza critica e profondità cristiana di Jacques Maritain e toccato dall’inquietudine di Georges Bernanos. Maritain – così riporta un intervento del critico cattolico, e sostenitore del ‘realismo esistenziale’, Giorgio Mascherpa (1930-1999), – guarda Rouault (1871-1958) come l’artista in cui siano «sempre presenti la pietà e la compassione» estese alle prode della «disperazione della condizione umana.»
Quel desiderio di pietà che David Maria Turoldo esprime nella sua “notte del Signore” con le accorate parole: «Sappiamo, sappiamo che fosti / “esaudito per pietà”: / Resurrezione, non altro / è la risposta. / Ma Tu non sapevi! / Come noi non sappiamo. E compatta / ancora sale sul mondo / la Notte.» Bisogna allora scuotere questa ‘immensa notte’ (stravolgendo un’immagine betocchiana da “Ti dico: or ora si fece notte”) per lambire, con insistenza, le corde tese del cuore; ancor più, le radici profonde delle parole.