Tante le donne insegnanti costrette a migrare dalla riforma della “Buona Scuola”, lasciando a casa figli e marito in attesa della desiderata stabilizzazione
di Clara Di Palermo
L’aereo decollerà con grande ritardo e, tra sbuffi e lamentele, finisce che tra noi passeggeri accomunati dallo stesso destino che prevede ore di attesa in aeroporto, si socializza e si chiacchiera.
La signora seduta accanto a me è un’ insegnante, che da sei anni viaggia in aereo ogni weekend per raggiungere la famiglia che vive in un piccolo centro della Sicilia. Dal nord al sud, ogni santo fine settimana, sole, pioggia o neve, lei viaggia per far sentire meno possibile la sua assenza ai suoi cari.
“Il mio stipendio finisce tutto per pagare i voli e l’alloggio. Per fortuna mio marito lavora – racconta – altrimenti non si potrebbe fare e io dovrei accontentarmi di vederli ogni tanto. Devo molto a mia figlia, che oggi ha 23 anni, che si è data un gran da fare per sostituirmi a casa, considerando che ho anche un figlio maschio che oggi ha 15 anni ma ne aveva 9 quando sono stata mandata in provincia di Brescia”.
La scuola è dalla parte della donna?
Sono tante le donne che la Buona scuola ha costretto a una vita lontana da casa e tantissime le famiglie che si sono ritrovate smembrate. Dopo l’anno di prova, già questo trascorso lontano da casa, la tanto agognata immissione in ruolo ha portato migliaia di insegnanti a girovagare per la penisola, moltissime sono donne la cui assegnazione lontano da casa ha, inevitabilmente, creato disagi nelle famiglie.
Anche Sara ha dovuto accettare, per non vanificare tutti i sacrifici fatti fino ad oggi, di lasciare il marito ad Agrigento e trasferirsi col figlioletto di 6 anni in una cittadina umbra, “dovrò restare qui tre anni – racconta – nella speranza di ottenere, poi, la sede definitiva vicino a casa. Il bambino l’ho dovuto portare con me, è troppo piccolo e mio marito lavora tutto il giorno”.
Un nuovo e singolare fenomeno migratorio, avvenuto all’interno del territorio nazionale, che è conseguenza di un decreto del Governo che non deve avere riflettuto molto sulle conseguenze per le famiglie italiane. Una vera e propria “deportazione” di massa, con poca scelta: o si accetta immediatamente la sede proposta, seppur lontano da casa, oppure rinunciare a quel tanto desiderato lavoro da insegnante che ha fatto sopportare anni e anni di precariato.
Anni e anni, in alcuni casi decenni, per cui a 40/45 anni, quando ti viene prospettata la stabilizzazione, non è che si sia tanto da pensarci.
E così ci si è dovuti organizzare, come ha fatto anche Paola, 54 anni “io l’immissione in ruolo non me l’aspettavo più, è stata una sorpresa che, però, mi sta dando qualche problema in famiglia. I miei figli sono grandi ma ho una madre molto anziana e che ha bisogno di continua assistenza”.
La differenza la fanno anche le scuole con orario prolungato, molto più diffuse al nord, (data l’altissima percentuale di genitori che lavorano entrambi) che al sud del nostro paese.
Questo fa aumentare la domanda di insegnati al nord a dispetto del meridione.
E Intanto, il Miur annuncia che ci sono duecentoquaranta milioni di euro per consentire le aperture pomeridiane e in orari extra scolastici in 6.000 scuole di tutto il Paese. “La Scuola al Centro”, l’iniziativa di contrasto alla dispersione scolastica e di inclusione sociale fortemente voluta dal Ministro Stefania Giannini, torna con un nuovo bando finanziato dal Fondo sociale europeo nell’ambito del PON 2014-2020. Questa estate sono state quattro le città coinvolte: Milano, Roma, Napoli e Palermo. Dieci i milioni stanziati nei mesi scorsi per le aperture estive. Ora sarà possibile ampliare l’esperienza in tutta Italia con una maggiore apertura delle scuole in orari diversi da quelli delle lezioni e quindi di pomeriggio e nei week end.
Una notizia positiva, ma che non basta a spegnere le polemiche su questa riforma della “Buona scuola”, con ricorsi e guerre sui numeri: secondo il Miur (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della ricerca) sarebbero solo 7000 i docenti lontano da casa, molti di più stando ai sindacati.
Le donne, comunque, pagano il prezzo maggiore: mamme costrette a lasciare la famiglia o far “migrare” anche i figli più piccoli, dividendo comunque nuclei familiari, per non perdere il loro diritto al lavoro. Del resto, proprio una statistica del Ministero di qualche tempo fa, accertava che circa l’80% dei docenti in cerca di cattedra risiede nel Mezzogiorno, di questi la maggioranza è composta da donne, con percentuali che nella scuola elementare raggiungono il 99%. Ma solo il 65% dei dirigenti e degli insegnanti superiori (soprattutto nelle Università) è donna.
Sono dati ufficiali diffusi pochi mesi addietro dal Ministro Stefania Giannini. Speriamo che, al di là delle cifre, si riesca ad approdare a una situazione che rispetti quella parità di genere di cui si sente tanto parlare e, soprattutto, si rispetti il diritto delle mamme a star vicino alle proprie famiglie e poter seguire la crescita dei propri figli, cosa di cui beneficia l’intera società.