In questi giorni al cinema sono usciti ben tre film incentrati, fin dal titolo, sulla figura a volte ingombrante della madre. Dunque, non ce n’è più una sola…
di Massimo Arciresi
Il personaggio della madre, talvolta protettivo e ossessivo, talaltra debordante e imbarazzante, occupa da sempre un posto privilegiato nel cinema. Anzi, al di là di Psyco (viene subito in mente, ma si potrebbero menzionare tantissimi altri esempi, da Il clan dei Barker a Interiors, da Rischiose abitudini a L’ultima eclissi, fino a opere meno “blasonate” e dai toni alternanti quali Sirene, La prossima volta il fuoco o In cerca d’amore) esistono non poche trame “mammone” che, non a caso, flirtano con (vere) vicende legate alla settima arte, vedi Mammina cara o Cartoline dall’inferno. Il caso (distributivo) vuole che, quasi ad aggiornare il discorso e a spogliarlo di gravosità, nelle ultime settimane in Italia siano circolati tre film – comunque accomunati da una certa levità di linguaggio – imperniati sulle scelte solo apparentemente discutibili di altrettante genitrici (non tutte) immaginarie. Li affrontiamo in ordine di apparizione.
Le mamme al cinema
Il primo ad approdare sugli schermi è stato Mario Balsamo con il suo personalissimo Mia madre fa l’attrice, che peraltro è legato a doppio filo con il precedente Noi non siamo come James Bond. È quasi un documentario (le parti scritte ci sono e le sequenze in auto con gli sfondi artificiali stanno a sottolineare con giocoso orgoglio il lato finzionale) gravitante intorno a Silvana Stefanini, oggi ottantacinquenne, che apparve in parti secondarie in un pugno di pellicole di inizio anni ’50. La più importante di queste (principalmente per la consistenza del ruolo), l’introvabile La barriera della legge (1954, con Rossano Brazzi), diventa motivo d’indagine per il regista, che ne riproduce – con un pizzico di scoperto sadismo – alcuni brani con l’aiuto della disponibile Silvana, sottolineando i suoi lati spigolosi, cercando pubblicamente le cause recondite di un risentimento filiale (a conti fatti diffuso), ribadendo il proprio doloroso passaggio attraverso la malattia.
I restanti due lungometraggi sono d’Oltralpe. Uscito quasi contemporaneamente all’“autoanalisi” di Balsamo, Torno da mia madre reca la firma di Éric Lavaine, già autore di commedie farsesche (Benvenuto a bordo) o pensose (Barbecue).
Qua riesce a equilibrare tre atti abbastanza diversi fra loro: si comincia con la presentazione della protagonista (Alexandra Lamy), quarantenne con bambino a carico che si ritrova improvvisamente senza lavoro, e di sua madre rimasta sola (la sempre brava Josiane Balasko), che la ospita durante tale difficile periodo; segue una rocambolesca riunione con fratello di successo e arcigna sorella (Mathilde Seigner), nel corso della quale la vedova vorrebbe introdurre ai familiari il vicino di casa con cui ha intrecciato (da tempo!) una relazione; segue l’epilogo sbrigativo e “vincente”. L’usura dei temi (il segmento di mezzo per ritmo ricorda da vicino Cena tra amici) non impedisce al plot di scorrere in maniera piacevole, con sapidi accenni a difficoltà di convivenza note un po’ a tutti.
Infine Lolo – Giù le mani da mia madre, diretto e interpretato da Julie Delpy, fortunatamente, possiede il brio tipico dei lavori che vedono – come qui – Dany Boon al centro della scena, ma è debitore di molte storie simili, da Tanguy a Cyrus (per menzionare le più recenti).
Infatti si parla di una neo-coppia non più giovanissima, avversata dal figlio quasi ventenne di lei (un tiepido Vincent Lacoste) che mette i bastoni tra le ruote al gentile e malcapitato “intruso”.
Se ieri l’incompatibilità fra generazioni era più un espediente narrativo (magari munito di solide osservazioni sociali), oggi sembra impossibile – pur in ambiti leggeri – decontestualizzarla. I tempi cambiano con rapidità, il divario tra posizioni (avi vs. discendenti) diviene incolmabile. Il dialogo è possibile, non più obbligatorio