Gianfranco Perriera: regista, saggista ed autore teatrale. Da trenta anni quasi fa parte del Teatro Teatés, diretto a lungo dal padre Michele. Collabora a diverse riviste culturali, fra cui Segno. Ha pubblicato diversi racconti. L’ultima pubblicazione a carattere scientifico è Il volume del futuro (Qanat, libro curato insieme a Giuseppe Marsala). L’ultima pubblicazione a carattere narrativo è Riflessi a Palermo (Il palindromo, raccolta di racconti di più autori). Insegna presso la Scuola dei mestieri dello spettacolo del Teatro Biondo di Palermo, diretta da Emma Dante e tiene un laboratorio presso la Scuola d’Attori Agricantus. A dicembre metterà in scena nell’ex chiesa dei Crociferi uno spettacolo tratto dai testi del padre.
di Pippo la Barba
Incontro Gianfranco Perriera per porgli alcune domande nella casa dove abita al centro storico di Palermo.
Cos’è per te il teatro?
Un destino, probabilmente, per motivi familiari. Nella sua essenza, credo, un luogo dove ci si misura con la profondità della coscienza e dove si dà corpo ai problemi più importanti dell’umano, al rapporto che abbiamo con il tempo, con la società, con la trascendenza. Il teatro, quello che pratico, quello che più amo, ti conduce in una specie di cavità subliminale. Passi come attraverso un sottile velo posto tra la veglia e il sonno e le questioni irrisolte del nostro rapporto col mondo e con gli altri appaiono incarnate nei corpi degli attori.
Come ti consideri: un regista, un autore, un attore?
Io ho sempre voluto fare il regista. E’ sicuramente utile calcare le scene, cosa che ho fatto, traendone anche un qualche piacere, ma conservando insieme un piccolo imbarazzo. Ho sempre preferito guidare l’interpretazione e la costruzione di un testo drammaturgico, amando la sorpresa che mi regala il vederlo vivere nella corporeità degli attori e nelle realizzazioni di tutti gli artisti e le maestranze che vi sono coinvolti. Sono anche autore di testi, sia teatrali che narrativi. Questo mi aiuta ad esercitare la regia. Parto sempre da un testo scritto nel mio lavoro. Rimango debitore ed insieme custode della parola.
In che senso ti consideri uno scrittore?
Saranno gli altri, bontà loro, a stabilire se sono o meno uno scrittore. Io sono uno a cui piace scrivere. La scrittura è una pratica che attraverso l’attenzione a ciò che è altro da te ti invita a una grande responsabilità. Hai scelto questa parola, non un’altra, questa storia, questo tema e così via. Se mi chiedi quale è la differenza fra la scrittura teatrale e quella narrativa, beh la prima cosa che mi viene in mente è che la scrittura teatrale è una scrittura che ha a che fare con il qui ed ora, con “corpi viventi” e che si fonda sull’impressione immediata, è più sintetica, non ha i tempi lunghi come avviene nella narrativa.
Dalla narrativa può nascere una sceneggiatura teatrale?
Sicuramente si. Pirandello insegna: le sue opere teatrali nascono dalla narrativa. C’è sempre una traccia di storia, un canovaccio non pienamente sviluppato, una trama di un romanzo e di un racconto dietro un testo teatrale, ma, naturalmente, sulla scena, tutto deve vivere nei dialoghi e nelle azioni, tra le scene, le luci. In definitiva bisogna assecondare la forza dell’accadimento.
Che tipo di teatro prediligi?
Sono per un teatro che ha una forte base nella scrittura e nel sogno. Non sono invece per un teatro realistico, il cosiddetto “teatro cronaca”. Va bene prendere spunto dalla cronaca, ma poi il discorso va allargato. Prendiamo la questione dei migranti: non è solo legata alla cronaca, suscita problematiche universali. Nell’antica Grecia anche il teatro focalizzò il tema sull’accoglienza, della “sacralità” dello straniero.
Come vedi il teatro a Palermo?
Mi dispiace che a Palermo, come altrove del resto, il teatro si stia consegnando alla godibilità, prevale un teatro leggero, che magari soddisfa i gusti di un pubblico assillato dai problemi quotidiani, ma non fa riflettere, non tende all’approfondimento. Come se compito del teatro e dell’arte in generale fosse quello di un’arma di distrazione di massa. Mi consola ampiamente però che ovunque e quindi anche a Palermo esista un gruppo di artisti notevole, sia dal punto di vista comico , che da quello della profondità. Per quanto riguarda la seconda, che è ciò da cui mi sento più attratto, mi viene in mente Emma Dante o Claudio Collova.
Esiste secondo te una contrapposizione tra teatro pubblico e teatro privato?
Il teatro pubblico deve essere finanziato, ampiamente. Non si tratta soltanto di quanto si è utili. Non mi piace il concetto di produttività. Si sta diffondendo pericolosamente un linguaggio e una concezione da tecnocrazia. Si parla di risorse umane. Di capitale umano. Mi sgomenta un destino che ci voglia ingranaggi del sistema. Mi ricordo uno scritto di Tolstoj, “Che cos’è l’arte”, in cui affermava che nel teatro bisogna valorizzare anche tutte le figure non artistiche come maestranze, tecnici e così via. Il teatro pubblico ha anche una funzione di memoria e di reinterpretazione della memoria stessa. Non può limitarsi a seguire il corso del tempi. Questa sua specifica funzione rende necessario una particolare attenzione anche da parte delle casse pubbliche. Non è sulla concorrenza che può reggersi.
Cosa pensi del teatro popolare?
Se per teatro popolare si intende un teatro basato esclusivamente su un ambiente contestualizzato, anche nel linguaggio, la considero un’idea limitativa. Per me chi fa teatro non deve porsi limiti di alcun genere, ma spaziare oltre il proprio orizzonte. Troppo spesso con la parola popolare si intende un’arte di diffusa divulgazione, oggi in particolare, un’arte di dilagante consumo. Altrettanto spesso il termine popolare è ambiguo. Popolo risulta essere ciò che viene costruito e compattato a seconda dell’indirizzo culturale che si cerca di imporre.
A chi spetta formare i giovani artisti, ai teatri pubblici o ai privati?
Teatès era un laboratorio teatrale privato e ha formato fior di artisti che poi hanno calcato le scene . Non farei una distinzione, nel senso che quella della formazione è una pregativa di tutti i teatrl. Recentemente l’esperienza della Scuola di Teatro del Teatro Biondo diretta da Emma Dante, di cui ho avuto la fortuna di far parte, ha fatto sbocciare allievi ricchi di talento e di intensità. Lo stabile di Genova, quello di Torino e di Milano, per fare solo pochi esempi, hanno sempre cresciuto individualità di spicco. Allo stesso modo singoli viaggiatori dello spirito, in luoghi angusti, hanno dato slancio e ispirazione a giovani attori. Insomma la formazione non è una questione di pubblico o privato. L’unica nota ineliminabile sta nel significato stesso dell’insegnare. Insegnare è mettere un segno, come dice appunto la parola. Bisogna avere qualcosa da infondere. Altrimenti si rischia di trasformarlo in semplice passatempo. Bisogna allargare l’orizzonte e ravvivare uno spirito piccolo. E’ anche, lasciamelo dire con risibile vanità, quanto da qualche anno cerchiamo di fare, nel nostro piccolissimo, alla Scuola di Teatro Agricantus, con Salvatore Ferlita, Vito Meccio e Ernesto Maria Ponte, e con persone che da tanto tempo lavorano con me, come mia sorella Giuditta, Elena Pistillo e Roberto Burgio.