Claudio Collovà è un regista e autore teatrale. I suoi lavori sono stati prodotti da Teatridithalia di Milano, dal Festival sul Novecento di Palermo, dal Politecnico di Roma, dal Teatro Municipale di Bamako (Mali), dal Teatro Garibaldi di Palermo Unione dei Teatri d’Europa, dal Teatro Biondo Stabile di Palermo, dal Deutsche Theater di Berlino, dal Wihlelma Teater di Stoccarda, dal Teatrul Mic di Bucarest, dal Thalia Szene di Budapest. Dal 2009 è direttore artistico del festival internazionale delle Orestiadi giunti alla XXXV edizione. E’ docente di regia all’Accademia delle Belle Arti di Palermo e svolge il suo lavoro di formatore presso teatri e università italiane. Molti dei suoi lavori sono stati presentati in festival internazionali di teatro in Italia e in Europa. La sua poetica, principalmente legata alla pittura, alla fotografia e alla fisicità dell’attore, si incrocia spesso con la danza e trae origine da fonti di ispirazione non solo teatrali.
di Pippo La Barba
Cosa rappresenta per te l’esperienza di direttore artistico delle Orestiadi?
Un’opportunità preziosa per osservare il teatro da un’altra prospettiva. Ed è stato per me molto importante e anche vivificante approfondire la mia conoscenza del lavoro di altri artisti. Inoltre il festival delle Orestiadi mi ha offerto la possibilità di vivere un luogo con una grande storia e quando il senatore Corrao mi nominò direttore provai subito felicità e il peso di una grande responsabilità. Gibellina è un luogo conosciuto in tutto il mondo ed è stato visitato da molte televisioni estere che oltre il festival hanno documentato tutto il patrimonio di idee e di realizzazioni artistiche e architettoniche di una intera città. Il festival ha ospitato e continua ad ospitare artisti che con i loro lavori hanno contribuito alla bellezza e alla profondità di una missione rivolta alle arti contemporanee, non è quindi solo teatro, musica, poesia, danza, ma anche arti visive, architettura, fotografia. Dall’anno della fondazione questo spirito non è stato tradito. Nel 2014 abbiamo ricevuto il premio come migliore festival italiano, e con la mia direzione sono più di 400 gli artisti ospitati e da cui è stato possibile ricevere bellissime emozioni. Il pubblico è sempre cresciuto di numero e di qualità. E’ una platea attenta e appassionata disponibile a considerare lo spettacolo non come puro intrattenimento, ma come un momento dedicato all’anima.
Il compianto senatore Ludovico Corrao continua ad essere ritenuto l’anima di questo festival. Che impressione hai avuto quando l’hai conosciuto?
L’ho conosciuto le prime volte che sono venuto alle Orestiadi come spettatore e in seguito come attore e regista negli anni ’90. Una figura di profonda cultura e volontà. Non potevi non subirne il fascino. E la testimonianza che ha lasciato è immensa. Ha fondato una città con il contributo di artisti e architetti di enorme fama, proprio perché credeva che l’arte potesse essere fonte di affrancamento dalla povertà, potesse allargare le coscienze, e ha reso tutti gli abitanti partecipi della ricostruzione dopo il terremoto del ’68.
Quale è stato il principale merito di Corrao in campo culturale?
Direi un merito sociale, prima ancora che culturale. Lui sosteneva che ogni atto di violenza nascesse dall’ignoranza e che quindi tutte le manifestazioni di cultura potevano diventare segni di resistenza e di lotta. Le Orestiadi e non solo il festival sono nate con l’intento di “fondare” e quindi ricostruire una identità in un territorio devastato dalla furia sconvolgente della natura. E non dobbiamo dimenticare che il principale intento del senatore è stato quello di mettere in contatto attraverso l’arte tutti i popoli del mediterraneo con una visione che oggi è molto importante continuare a perseguire.
Parlando del tuo lavoro in genere di regista e di autore, cosa ti spinge a lavorare spesso fuori dalla Sicilia?
Non sono un sicilianista, anche se amo profondamente la mia terra, soprattutto Palermo dove sono nato. Ho studiato da anglista e fin dall’inizio dei miei studi ho coltivato la letteratura anglo-americana ed europea. Ho messo in scena Eliot, Joyce, Yeats, Rilke, Kafka, tutti comunque parlano dell’Uomo e di Noi. L’ultima mia regia è stata Horcinus Orca di Stefano D’Arrigo, uno scrittore siciliano i cui riferimenti sono principalmente europei. Da quando ho un bimbo la mia frequentazione all’estero è diminuita radicalmente, ma il mio immaginario si alimenta di pittura, immagini, visioni che quelle parole immense fanno scaturire, da chiunque esse vengano e quindi non ho limiti geografici nel cervello e nel cuore, anzi direi il contrario.
Cosa pensi del teatro cosiddetto “popolare”?
Non ho nessun pregiudizio nei confronti di nessun genere di teatro. E’ necessario che ci sia perché riguarda un livello più spontaneo, più legato alla tradizione, alla memoria di un determinato territorio. Edoardo mi sembra facesse teatro popolare e il livello è altissimo. Il linguaggio è innovativo e al contempo radicato nella tradizione. Quindi se l’accezione è dispregiativa stiamo solo forse parlando di un brutto teatro, minore e sciatto. E quello lo possiamo trovare anche nella ricerca e nella sperimentazione, ahimè.
Cosa non va nel teatro oggi?
Oggi il teatro ha perso, o rischia di perdere, quella che è la sua peculiarità: la complessità. Il teatro non può essere semplicemente intrattenimento, ma deve aiutare a comprendere la nostra natura nel profondo, procurando emozioni vere. Per me la complessità è un dato divertente: significa dovere indagare, essere disponibili al silenzio, andare a teatro a proprio rischio e pericolo perché si può uscire da quel luogo completamente mutati. Essere curiosi e vivi. Ma quello che non va è il tempo di produzione sempre più breve, quell’aria di consumo di prodotti, quella ricerca spasmodica del consenso, la sua commercializzazione, spesso la mancanza di progetti in grado esprimere un pensiero e infine il frastuono dilagante di milioni di iniziative. Magari un po’ di silenzio e il ritorno a un lavoro più accurato e allo studio aiuterebbe non poco.
Il teatro pubblico ha una funzione diversa rispetto a quello privato?
Ha indubbiamente una funzione molto importante, che è anche quella di rendere sensibile alla bellezza la comunità a cui si rivolge, quindi ha una grande responsabilità, perché usa il denaro che questa comunità gli affida. I condizionamenti della politica sono insopportabili, spesso avulsi dalla realtà. Ma chi guida uno stabile deve avere una grande competenza e una enorme amore per un luogo oggi diventato difficilissimo. E inoltre deve favorire il lavoro degli artisti, rendere possibile una reale collaborazione col territorio, proteggere il teatro che produce, renderlo visibile, e nutrirsi delle creazioni di artisti che qui sono nati, ma allo stesso tempo permettere un grande confronto con le migliori espressioni artistiche europee e nazionali. Non ha una funzione, ne ha davvero moltissime e tutte complesse in un sistema spesso bloccato in rigide regole.
E il teatro privato?
I teatri privati in Italia sono finanziati dal ministero come gli stabili, in qualche caso con più soldi. Il problema non credo sia pubblico o privato. E le due cose non dovrebbero essere isole separate o in contrapposizione, si possono creare preziose collaborazioni se lo si volesse. Bisogna recuperare l’onestà, l’eticità, il gusto del lavoro fatto bene. Insomma, anche nel campo artistico, tornare all’officina, alla dimensione artigianale. Ci sono gruppi indipendenti che lo stanno facendo in modo esemplare. Penso al Teatro Mediterraneo Occupato, un esempio di coerenza, responsabilità e amore per il rischio da seguire Sono più felice quando mi concentro sul mio lavoro, sul teatro da fare, piuttosto che guardare al sistema teatrale. Quello non lo sopporto proprio.
Foto di Stefania Mazzara Bologna