Un fiume di popolo sale a piedi fin sopra monte Pellegrino nella grotta dove fu ritrovato il corpo della santa protettrice di Palermo. Questa forma di devozione, che si tramanda di generazione in generazione, ha contagiato anche molti immigrati che vivono in città. Viaggio tra gli immigrati in processione
di Padre Sergio Natoli
La devozione e l’amore a S. Rosalia fa parte della vita dei palermitani che ricordano l’intercessione della “santuzza” verso la città quando nel 1624, fu liberata dalla peste.
Da allora la santa patrona è di casa nella vita della gente e delle istituzioni. Così, due volte l’anno, viene celebrata una grande festa religiosa e civile in onore della Santa: una nell’anniversario del ritrovamento dei resti mortali avvenuto in una grotta a monte Pellegrino dove sorge l’attuale santuario e l’altro nel giorno della liberazione dalla peste.
All’inizio di settembre, però, un fiume di popolo sale in processione a piedi fin sopra monte Pellegrino nella grotta dove fu ritrovato il corpo della santa protettrice di Palermo. Questo salire è a ‘nchianata, una tradizione che si tramanda di generazione in generazione e che ha contagiato anche molti immigrati che ormai da anni vivono nella città.
Il rettore della Chiesa, mi dice che ogni domenica, di buon mattino dietro la porta del Santuario di S. Rosalia, ci sono già degli srilankesi, che sono lì ad aspettare l’apertura del Santuario. Ogni domenica: d’estate e d’inverno! Ma non sono solo i tamil dello Sri Lanka a salire in cima alla montagna. Ci sono anche singalesi e mauriziani. La cosa particolare è che molti di essi non sono cattolici, ma induisti e buddisti.
Ma che ci vanno a fare? Si possono capire i cattolici, ma perché dei non cattolici vanno al Santuario di S. Rosalia? Cosa c’è che li accomuna?
Così, ho iniziato a dialogare con parecchi di loro cercando di capire più in profondità le motivazioni di questo continuo pellegrinaggio al Santuario di monte Pellegrino.
Una ragazza tamil percorre in ginocchio l’ultimo tratto che immette al santuario. La conosco e le chiedo perché questo suo pellegrinaggio. “Desidero mettermi sotto la protezione di S. Rosalia perché ho un esame molto difficile all’università”. Un’altra domenica vedo una mamma con a fianco il suo bambino e in mano un mazzo di fiori: entra nel santuario in ginocchio e prega. Poi vedo un uomo con le mani giunte dinanzi al volto di fronte a un’immagine di S. Antonio che si trova nel cortile dinanzi al Santuario. Fa un inchino e senza entrare nel Santuario, va via.
Lo scorso anno, mentre anch’io facevo “a ‘nchianata”, ero preceduto da due monaci buddisti cinesi con il loro abito color rosso: salivano in cima alla montagna.
Le radici culturali dei tamil, che vivono in India e nel nord dello Sri Lanka, sono induiste. Alcune forme di preghiera presenti nell’induismo sono presenti anche nei riti cristiani. Uno è il cerimoniale dell’ “alathi”: nella cultura dei Tamil, quando un ospite importante visita la comunità, viene accolto da due donne della comunità, che prima lo incensano, poi lo aspergono con acqua, perché bisogna essere purificati nel corpo, e infine gli mettono sulla fronte il “pothu”, una polvere gialla estratta dai fiori. Un altro segno è l’accensione della luce nel “vilaq” che è una sorta di candeliere su cui troneggia il gallo per esprimere che come il gallo annuncia l’arrivo del nuovo giorno, così Cristo è il sole che sorge nella vita di ogni uomo. D’altronde sappiamo che la forma di preghiera del rosario è nata inizialmente nel mondo induista, poi è entrata nel buddismo, nell’Islam e infine nel cristianesimo. Evidentemente i contenuti di questa preghiera sono ben diversi a seconda delle religioni.
L’induismo, che fonda il cammino di fede sull’auto-salvezza, è permeato di ascesi. Il salire la montagna, allora, è una forma ascetica che pervade anche la cultura tamil, singalese e mauriziana. Il salire la montagna di monte Pellegrino, dove in cima c’è un luogo sacro, è una forma devozionale che per tutti è un esercizio di ascesi ma che si differenzia nel suo contenuto di fede e devozione a seconda se si tratti di cattolici, induisti o buddisti. Un fenomeno simile lo si nota anche al Santuario di Tindari, in provincia di Messina, anch’esso posto sul monte.
Che degli immigrati abbiamo assunto come meta della loro devozione un santuario cattolico è un segno positivo nello scacchiere della convivenza di popoli diversi presenti nel medesimo territorio. Il santuario di S. Rosalia è una tavola rotonda esistenziale di dialogo interreligioso, un luogo profetico che può aiutare tutti ad essere operatori di pace.
D’altro canto, come osservava l’allora Cardinal Ratzinger in una formula particolarmente illuminante, «non esiste la nuda fede o la pura religione. In termini concreti, quando la fede dice all’uomo chi egli è e come deve incominciare ad essere uomo, la fede crea cultura. La fede è essa stessa cultura». La fede, offrendo all’uomo un’ipotesi interpretativa del reale, produce cultura; ma, d’altra parte, la/e cultura/e, esercitandosi, interpreta(no) le fedi stesse. La cultura è sempre da purificare alla luce della fede, ma la fede è sempre da interpretare secondo le istanze suscitate dalla cultura. Come afferma la Fides et Ratio al n° 71, «il modo in cui i cristiani vivono la fede è anch’esso permeato dalla cultura dell’ambiente circostante e contribuisce, a sua volta, a modellarne progressivamente le caratteristiche».
Che S. Rosalia aiuti tutti quelli che arrivano al suo santuario a divenire costruttori di una cultura della pace e che ci liberi dalla peste delle piccole e grandi guerre.