Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalisti indipendenti

Appalto privato e diritto di recesso del committente

Facciamo chiarezza, con l'avv. Dario Coglitore, sull'istituto dell'appalto e sui rapporti tra appaltatore e committente.

di Dario Coglitore

Il contratto di appalto è definito dal codice civile come “il contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro” (art. 1655 c.c.).

In generale la fine anticipata ed immotivata di un contratto è ammessa solo in caso di mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge

Diritto di recesso

Tuttavia, l’art.1671 c.c. attribuisce al committente il diritto di recedere in qualunque momento dopo la conclusione del contratto e per “qualsiasi ragione che lo induca a porre fine al rapporto”.
La chiara formulazione della norma in esame non lascia adito a dubbi di sorta circa il fatto che il recesso possa essere esercitato ad nutum e senza necessità di giustificazione, in qualunque momento posteriore alla conclusione del contratto e, quindi, anche se l’opera non  sia stata ancora iniziata.

L’azione di cui all’art. 1671 c.c. ha natura contrattuale, come si desume dall’inequivoco riferimento della disposizione alle parti del negozio, indicate nel “committente” e “nell’appaltatore” ed è esperibile anche all’interno del contratto di sub-appalto dal sub-appaltatore nei confronti del sub-committente.
Ne discende che spetta quindi al sub-appaltatore in primis dimostrare che il contratto di sub-appalto si sia sciolto a causa ed in conseguenza del recesso operato dalla sub-committente.

Il recesso disciplinato dall’art. 1671 c.c. presuppone che il committente, avvalendosi di una facoltà direttamente attribuitagli dall’ordinamento giuridico abbia però manifestato in modo non equivoco una volontà contraria all’esecuzione o completamento dell’opera, attese le conseguenze che ne derivano. 

Vero è che sono ammesse anche forme equipollenti alla tradizionale dichiarazione scritta, come ad esempio una forma orale, una forma tacita (comportamento concludente); cionondimeno, una manifestazione chiara di volontà da parte del committente non può mancare. 

Trattandosi di atto di recettizio, affinché il recesso sia efficace è necessario che lo stesso venga portato a conoscenza del destinatario.
Nel recesso, infatti, l’effetto caducatorio si verifica quando la manifestazione di volontà del recedente perviene all’indirizzo del destinatario e la caducazione degli effetti contrattuali già realizzati costituisce effetto negoziale e non automatico .

Il pronunciamento della Cassazione

La Suprema Corte di Cassazione al riguardo ha affermato che: “Il comportamento cui possa essere attribuito in astratto valore di concludenza, ove, in concreto, debba produrre effetti giuridici nei confronti della controparte, deve da questa essere percepibile come tale, “id est” deve essere rivolto alla stessa od essere dalla stessa comunque immediatamente e direttamente apprezzabile quale inequivoca manifestazione di volontà incidente sull’operatività del rapporto, ipotesi che non può essere ravvisata allorché trattisi di rapporti posti in essere da una delle parti con terzi e dei quali l’altra parte, che non ne sia partecipe o non ne abbia  comunicazione, venga solo indirettamente e casualmente a conoscenza” .

Si concorda, quindi, sul fatto che il recesso può essere comunicato anche oralmente purché risulti una manifestazione espressa di volontà.
Trattandosi, infatti, di negozio unilaterale recettizio, un recesso tacito, quand’anche fosse ravvisabile in fatto, rimarrebbe giuridicamente irrilevante per mancanza di comunicazione all’appaltatore.
La giurisprudenza ammette un comportamento per facta concludentia, purché non equivoco e ne sia stata data notizia all’appaltatore.

Inoltre la citata norma prevede, come già detto, le conseguenze economiche del recesso ovvero ristoro delle perdite subite dall’appaltatore (per le spese sostenute ed i lavori eseguiti) e del mancato guadagno che sarebbe costituito dall’utile netto che l’appaltatore avrebbe potuto ricavare dal completamento dell’opera in riferimento ai lavori rimasti ineseguiti; e ciò in quanto i lavori già eseguiti devono essere pagati integralmente dal committente in base ai prezzi pattuiti, già comprensivi del guadagno dell’appaltatore 

Appaltatore e committente

Grava sull’appaltatore, che chieda di essere indennizzato del mancato guadagno, l’onere di dimostrare quale sarebbe stato l’utile netto da lui conseguibile con l’esecuzione delle opere appaltate, salva la possibilità per il committente di provare che l’interruzione dell’appalto non ha impedito all’appaltatore di realizzare guadagni sostitutivi ovvero gli ha procurato vantaggi diversi.
Si tratta di dati, però, talvolta di difficile percezione e, soprattutto, prova.
Utili indicazioni a riguardo potrebbero allora ricavarsi dalla disciplina dettata in materia di appalti pubblici laddove il lucro cessante viene definito sulla base dell’utile economico derivante dall’esecuzione dell’appalto calcolato, generalmente, nella misura del 10% del valore complessivo dell’appalto medesimo.

Il summenzionato parametro previsto ex lege, probabilmente,  può costituire un criterio di massima da seguire anche in ambito di appalti tra privati per la determinazione del lucro cessante da riconoscere  appaltatrice a seguito di recesso della committente, qualora il giudice ritenga di liquidare equitativamente il danno, non dimostrabile altrimenti con precisione in giudizio.
Avv. Dario Coglitore

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