Da Alassio ad Albenga, da Finale Ligure a Loano, la Liguria celebra “Artemisia Gentileschi” con alcuni centri che hanno l’obiettivo di offrire un primo ascolto (e quindi aiuto psicologico) a donne in difficoltà, sia per violenze fisiche e psicologiche in ambiente familiare che per situazioni di mobbing o molestie sessuali nei luoghi di lavoro.
Il primo di questi sportelli fu istituito ad Albenga, poi a Loano e Finale Ligure, ultimo in ordine di tempo quello di Alassio, una sorta di “front line” che offre ascolto a donne in difficoltà 24 ore su 24. I numeri di telefono a cui rivolgersi sono 0182-571517 oppure 019-670184.
Perchè intitolare i centri di ascolto ad Artemisia Gentileschi?
Il nostro interesse per questi centri, gestiti da personale volontario, è dettato sia dallo spirito che li anima che dall’averli dedicati ad una donna che era sì una grande artista ma è stata anche una donna che la violenza l’ha conosciuta sulla propria pelle.
Non a caso, quindi, i centri sono stati intitolati ad Artemisia Gentileschi, donna, pittrice di talento di scuola caravaggesca, con un vissuto pesante di violenze, subite anche in ambito familiare, ma con una grande forza interiore. Alcuni dei suoi dipinti sono facilmente riconducibili alle situazioni e alle vicende che segnarono profondamente la sua vita, come lo stupro subito nel 1611 da un amico del padre Orazio (anch’egli pittore), Agostino Tassi.
Le storture delle leggi dell’epoca
Quest’ultimo al processo cercò di svilire e mortificare la figura di Artemisia, dichiarando che lei gli aveva confidato di dover subire le pesanti attenzioni del padre già da anni. Scopo di questa dichiarazione era quello di attenuare le responsabilità del Tassi stesso e la gravità dello stupro perpetrato, dato che le leggi di allora riconoscevano come stupro la violenza su una donna illibata: il dichiarare al giudice che Artemisia lamentava da parte del padre “attenzioni come di una moglie”, mirava a sollecitare una condanna mite. Cosa che avvenne.
Il processo fu molto pesante per Artemisia, le domande che le venivano rivolte molto insistenti, a volte morbose e ne mortificarono la figura, oltre a svilire la sua figura professionale: perse, infatti, la stima di numerosi colleghi artisti che le avevano attestato notevoli riconoscimenti.
Il padre Orazio combinò per lei una sorta di un matrimonio “riparatore” con un altro pittore, Pierantonio Stiattesi, dalle deboli capacità artistiche ma che diede ad Artemisia una creta serenità e ben quattro figli.
Una vita triste, di storie come queste nel corso dei secoli ne sono state raccontate tante, ma Artemisia ebbe modo di esprimere il suo dolore attraverso la sua arte.
Dipinti per denunciare
Inevitabile il collegamento tra la violenza subita e il celebre “Susanna e i vecchioni”, (ne vediamo un particolare nella foto di copertina), un dipinto in cui una giovane donna, seminuda, sembra non riuscire a sfuggire alle attenzioni di due uomini decisamente più grandi di lei: in uno si vuole vedere il padre e l’altro, secondo testimonianze dell’epoca, sembra essere particolarmente somigliante ad Agostino Tassi.
Sempre legato alle sue vicende personali sembra essere “Giuditta che decapita Oloferne”, un dipinto molto violento.
Dolore e umiliazioni
Una storia come altre, purtroppo, in cui le donne subiscono una violenza fisica ma un’ancora più grande violenza psicologica, che nel 1997 ispirò il film “Artemisia – passione estrema”.
Colpisce il fatto che un’artista di tale spessore, sebbene nel ‘600 quando gli uomini esercitavano un predominio assoluto, abbia subito tali offese e violenze, lo svilimento come donna e come pittrice. Basti pensare che nel corso del processo dovette subire anche la terribile tortura dello schiacciamento dei pollici, che per un pittore è un fatto gravissimo. Morì a 60 anni a Napoli.