Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalisti indipendenti

Autonomia differenziata. Nord e Sud come separati in casa

L’autonomia differenziata rischia di essere il colpo di grazia per un Paese diviso e incattivito, come ci ha definiti la moglie del lavoratore morto dissanguato davanti casa con un arto amputato. La riforma voluta dalla Lega soffia pericolosamente sul fuoco del separatismo meridionale

di Victor Matteucci

Secondo il Ministro Calderoli, colui che ha firmato il disegno di legge sull’autonomia differenziata, “fino a oggi le differenze tra Nord e Sud del Paese ci sono sempre state e sono conseguenti al centralismo” (21/06/2024 Tg1- Sonia Sarnoche).

Falso. O ignoranza

Il divario tra sud e nord, il Paese separato, la questione meridionale sono una conseguenza dello sviluppo concentrato al nord e determinato da una borghesia imprenditoriale che ha ottenuto, nella mediazione con lo Stato, fondi e risorse per garantire al nord le condizioni infrastrutturali e sociali di questo sviluppo. Perfino in ambito agricolo si è fatta questa scelta.

Le risorse destinate al sud, in realtà, non hanno affatto riguardato l’ammodernamento e la spinta economica per risorse e produzioni, ma erano rendite clientelari a una borghesia parassitaria e queste risorse avevano un carattere politico che veniva scambiato con il consenso; infatti, non erano relativi a piani industriali o ipotesi di effettivo sviluppo di settori e comparti economici, nemmeno riferiti all’agroindustria o al turismo che erano le soluzioni più banali. Non a caso, tutto il centro sud ha potuto contare  su un sistema di grandi mediatori politici tra lo stato e le regioni (Lima, Gaspari, Gava, Tanassi Gui, ecc.), mentre al nord la mediazione con lo Stato è stato determinato da Confindustria e dalle Imprese; infatti, non conosciamo mediatori politici del nord ma piuttosto imprese che hanno percepito risorse, in primis la FIAT.

Questo squilibrio da separati in casa ha, dunque, origini lontane. Questo dialogo, economico al nord, e politico al sud, ha avuto, infatti, enormi conseguenze tanto che, ancora oggi, “Circa un’impresa su due del manifatturiero, si trova nel Nord Italia (il 29,8% nel Nord-Ovest e il 24% nel Nord-Est), il 25,4% nel meridione e il 20,8% al Centro. In controtendenza rispetto alla distribuzione generale delle altre attività manifatturiere l’industria del tabacco e la fabbricazione di coke e prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio, realtà che si concentrano prevalentemente nel meridione rispettivamente per il 61,4% e per il 45,6%. 

Discorso simile anche per il settore delle costruzioni, ovvero l’attività generica e specializzata per la costruzione di edifici e di opere di ingegneria civile (14,9% delle imprese totali). Le aziende di quest’ultimo, infatti, si concentrano per il 52,5% nel Nord Italia, per il 26,2% nel Sud e nelle Isole e per il restante 21,3% nel Centro.

I dati, oltre a evidenziare una distribuzione territoriale polarizzata, mettono in luce anche il forte divario Nord e Sud, sia in termini di diversa capacità di offrire un contesto in grado di liberare le energie delle imprese già operanti, ma anche una diversa attrattività e capacità di creare le condizioni per lo sviluppo delle nuove realtà imprenditoriali. Le startup non fanno eccezione, distribuendosi per il 55,4% nell’area settentrionale della penisola e concentrandosi prevalentemente tra Lombardia (22,2%), Emilia-Romagna (12%), Veneto (7,8%) Piemonte (6,1%) e solo in misura minore nel  Sud e Isole (23%) dove le regioni più dinamiche sono la Campania (6,3%), la Sicilia (4,9%) Sardegna (2,4%) e Calabria (2,3%) (ICRIBIS 2024 -La Distribuzione geografica delle Imprese).

Cos’è che, invece, è dominante al sud ? Il commercio al dettaglio, che, come è noto, è un segmento rifugio dell’economia; un tipico risultato da separati in casa, in cui qualcuno la fa da padrone e, qualcun altro, da ospite indesiderato.

Autonomia differenziata: il disegno di legge Calderoli

Le bandiere del regionalismo del nord, all’atto dell’approvazione del disegno di legge, in Parlamento sono state una provocazione che descrivono un clima di esasperazioni che potrebbe soffiare sul fuoco latente, ma mai spento, delle spinte indipendentistiche sarde, siciliane e meridionali in genere.

Il disegno di legge sull’Autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario è stato presentato dalla Lega, a firma del ministro per gli Affari regionali e le autonomie della Repubblica Italiana, Roberto Calderoli. Si tratta di una legge puramente procedurale per attuare la riforma del Titolo V della Costituzione, introdotta nel 2001.

Il documento, composto da 11 articoli, stabilisce le procedure legislative e amministrative per l’applicazione del terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione, in particolare definendo le intese tra lo Stato e le Regioni che richiedono l’autonomia differenziata in 23 materie specifiche indicate nel provvedimento  (Cosa prevede Il disegno di legge sull’autonomia differenziata delle Regioni, “Rai News” 23 gennaio 2023)

Il caso Sanità

Una autonomia differenziata, di fatto, con la modifica del Titolo V, ad opera della sinistra nel 2001 è già una realtà soprattutto a livello sanitario. Il risultato è stato che la Sanità in Italia è in una situazione disastrosa , con venti sistemi sanitari diversi.

Ma quali sono stati i criteri per le diverse attribuzioni di queste risorse sanitarie? Secondo l’Osservatorio CPI  (Osservatorio conti pubblici Italiani) dell’Università La Cattolica, la ripartizione avviene in base alla popolazione delle varie regioni corretta per l’anzianità. L’attuale schema genera controversie tra regioni, alcune delle quali sottolineano la necessità di tener conto anche di altri fattori quali la deprivazione sociale.

Come sono ripartite tra le regioni le risorse del Fondo Sanitario Nazionale (FSN)? Esistono forti differenze tra quanto ricevono le regioni in termini pro-capite. Per esempio, nella ripartizione iniziale del FSN per il 2020, la Liguria ha percepito 127 euro pro capite sopra la media nazionale, il Molise 56 euro, la Basilicata 37 euro.  Sotto la media si trovano invece la Sicilia (meno 39 euro), la provincia di Trento (meno 41 euro), quella di Bolzano (meno 72 euro) e la Campania (meno 59 euro). Queste diversità creano controversie. Per esempio, il Governatore della Campania lo scorso anno ha affermato: “Siamo partiti 10/15 anni fa adottando due criteri per il riparto: l’anzianità della popolazione e la deprivazione sociale. La Campania ha la popolazione più giovane d’Italia e riceve di meno rispetto alla Liguria con più anziani. Il secondo criterio è stato dimenticato del tutto nel corso degli anni. Per cui noi subiamo un taglio strutturale di 300 milioni in maniera irrazionale”.

Sempre secondo De Luca, la Campania ha una popolazione relativamente giovane, tuttavia, presenta una forte incidenza di patologie infantili e giovanili (obesità, problemi alimentari, alcolismo e tossicodipendenza) che tuttavia il Piano sanitario non riconosce come priorità.

Complicità: la sinistra sempre presente

La riforma del Titolo V della Costituzione, dunque, entrò in vigore l’8 novembre 2001 dopo un lungo iter normativo: il Senato, con deliberazione adottata l’8 Marzo 2001, ha approvato la Legge Costituzionale n. 3/2001 (riforma Titolo V della Costituzione [artt. 114–132 Cost.]

Promotore di questa modifica è stato il PD che dovrebbe spiegarci perché mai venti anni fa promulgò, con pochi voti di maggioranza, questa riforma del titolo V, da cui, le forbici territoriali che negli anni sono aumentate a dismisura.

Ma al di là delle spiegazioni di contesto che possiamo intuire (sottrarre alla lega l’idea della secessione o garantire le riforme Bassanini o altro) rivela la drammatica irresponsabilità di quel gruppo dirigente con le conseguenze che conosciamo per la sinistra e per il Paese.

Emanuele Macaluso, nella sua rubrica quotidiana sul Riformista, polemizzando con Franco Bassanini (e indirettamente anche con l’Unità) a proposito di “sinistra d’acciaio” e “sinistra di ricotta”, in conclusione del suo corsivo si chiedeva: «Vuole dirci il senatore (Bassanini) chi, in Parlamento, impose quel voto? Anche per capire chi, nella cosiddetta “sinistra d’acciaio”, fece un favore alla destra».

II giorno seguente, il parlamentare DS Antonio Soda inviava una lettera al Riformista: «Sono stato relatore di quel testo che ora, sembra, in molti a sinistra disconoscano – esordiva – e posso aiutare la memoria del senatore Bassanini». E Soda ricorda che il testo proveniva da un disegno di legge presentato nel marzo 1999 dal governo «in cui Bassanini era sottosegretario di stato alla presidenza del Consiglio», che il proponente era Giuliano Amato, che riprendeva gli esiti della bicamerale dalemiana «e rappresentava anche la piena copertura costituzionale delle leggi Bassanini» . E che il «successivo governo presieduto da Amato, nel quale Bassanini divenne ministro per la Funzione pubblica, promosse, guidò e sostenne il provvedimento fino al voto finale». Amato e Bassanini dunque, sembra di capire, sono coloro the promossero-guidarono-e-sostennero l’aborrita riforma unilaterale

Tuttavia, per evitare una riforma che non fosse condivisa dalla destra (a quel tempo, il Polo) si tentò, appunto, di coinvolgere gli altri partiti di centro destra.

La pretesa del centrodestra comportava di fatto… la presa in carico di un preciso impegno programmatico. E tutto poteva permettersi Francesco Rutelli, intanto investito della candidatura per la premiership alle imminenti elezioni, tranne che la delegittimazione dell’alleanza che si apprestava a guidare» ( cfr. Il Riformista martedì 12 ottobre 2004 “ Ma chi l’ha fatto questo titolo V? La soluzione del Giallo: Rutelli)

Ambiguità: Il doppio standard dell’Emilia-Romagna (e del PD)

Così come, il Presidente della Regione Emilia-Romagna, nonché Presidente del PD, Bonaccini, dovrebbe spiegare perché la sua regione non ritira la richiesta di Autonomia differenziata. Bonaccini adesso sembra essersi espresso contro l’autonomia differenziata approvata dal governo. Questo, nonostante che nel 2018 fosse stato proprio lui a chiedere di attuare con una legge ordinaria la riforma del Titolo V della costituzione, scritta nel 2001. Tuttavia, le preoccupazioni attuali di  Bonaccini sono altre. Ovvero, quelle di andare a Bruxelles nella veste di europarlamentare. 

Poco importa se le dimissioni di Bonaccini possano mettere un ostacolo sulla strada del referendum abrogativo che le opposizioni vogliono promuovere contro questa legge. Si può essere effettivamente di sinistra ed essere un esponente della borghesia? Difficile, così come è difficile la coerenza per l’Emilia-Romagna che sconta la sua ambiguità di essere una regione governata dalla sinistra ma anche tra le regioni del centro-nord più avanzate e sviluppate con tutto l’interesse all’autonomia differenziata.

Il referendum: due prospettive

In Italia, infatti, esistono due modi principali per abrogare una legge ordinaria tramite referendum. Il primo è la raccolta di mezzo milione di firme. Un’operazione non semplice ma che, come stabilito da una sentenza della Corte costituzionale, è resa più semplice dalla possibilità della raccolta online tramite identità digitale. Un esempio di campagne di successo di questo tipo in tempi recenti sono stati i due referendum sulla legalizzazione della cannabis e dell’eutanasia, che hanno ottenuto ben più delle firme necessarie ma che sono stati bocciati dalla Consulta.

L’altro modo per richiedere un referendum abrogativo è che la domanda parta da almeno 5 consigli regionali. Questa era l’intenzione del centrosinistra, che controlla al momento Sardegna, Toscana, Puglia, Campania ed Emilia-Romagna, esattamente il numero minimo di consigli regionali che potrebbero fare domanda tramite un atto formale.

Se Bonaccini si dimettesse però, la giunta regionale dell’Emilia-Romagna entrerebbe in regime di gestione degli affari correnti sotto la guida della vicepresidente Irene Priolo. Al contempo, il consiglio regionale non potrebbe più approvare atti formali e quindi richiedere un referendum abrogativo. Senza il supporto dell’Emilia-Romagna, le opposizioni dovranno quindi raccogliere 500mila firme dei cittadini per poter presentare il referendum abrogativo sulla legge.

Il giudizio dell’Unione Europea

Anche la Commissione  ha ammonito, solo pochi giorni fa, l’Italia sull’Autonomia differenziata e su tutti i possibili rischi per le Regioni.

L’Unione, infatti, ha redatto un documento in cui ha richiamato l’Italia e il proprio governo dopo la decisione presa, con una serie di raccomandazioni sulle politiche economiche, sociali, occupazionali, strutturali e di bilancio prese. E proprio sull’Autonomia la bocciatura appare chiara, con l’Ue che ha definito quella in atto una vera e propria “devolution” che ha il rischio di portare una spaccatura all’interno del Paese, con l’acuirsi delle disuguaglianze tra Nord e Sud.

Nel documento di lavoro dell’Ue sull’Italia, redatto nell’ambito delle raccomandazioni sulle politiche economiche, sociali, occupazionali, strutturali e di bilancio, di cui l’ANSA ha preso visione, si legge una chiara presa di posizione da parte della Commissione sull’Autonomia differenziata passata in Parlamento. L’Ue, infatti, richiama l’Italia prima dell’approvazione finale della riforma, lanciando l’ammonimento al governo Meloni su quanto deciso.

L’Ue definisce quella in atto come una “devolution di ulteriori competenze alle regioni italiane” che “comporta rischi per la coesione e le finanze pubbliche del Paese”. Il pericolo, tra l’altro, è di “disuguaglianze tra le regioni“, col disegno di legge sull’autonomia che “include alcune tutele per le finanze pubbliche, come le valutazioni periodiche delle capacità fiscali regionali e i requisiti per i contributi regionali per raggiungere gli obiettivi fiscali nazionali”.

Ue boccia l’Autonomia differenziata e richiama l’Italia: “Rischio disuguaglianze” (20 giugno 2024, Qui Finanza – Luca Bucceri)

Il Baratto. Il mercato rude e primitivo delle destre

L’elezione diretta del capo del governo sostenuta da Fratelli d’Italia non compenserebbe la perdita di regia e controllo nazionale di materie e entrate fiscali essenziali, ovvero l’autonomia differenziata, voluta dalla Lega, mentre la riforma della magistratura, voluta da Forza Italia, rischia di far saltare l’autonomia dei giudici sottoponendo il Pubblico Ministero agli orientamenti del Governo.  

Il pericolo, con questo piano di riforme contraddittorie tra loro, conseguenza non di una visione ma di scambi di favori, è di non governare più lo Stato, in una fase storica dove ritorna necessaria e decisiva la funzione di governo (o quanto meno di mediazione) dell’economia, soprattutto se si considera il gravissimo indebitamento italiano che ha già determinato una apertura di una procedura di infrazione.

I contenuti del disegno di legge sull’Autonomia differenziata

L’autonomia differenziata della destra, dunque, non fa altro che estendere ad altri ambiti la divisione già in atto nel sistema sanitario dal 2001.

Le principali disposizioni includono il requisito che le richieste di autonomia debbano partire dalle Regioni stesse, previa consultazione degli Enti locali. Tra le 23 materie che possono essere oggetto di autonomia differenziata ci sono la salute, l’istruzione, lo sport, l’ambiente, l’energia, i trasporti, la cultura e il commercio estero. Quattordici di queste sono definite come Livelli essenziali di prestazione (LEP), su cui Stato e Regioni devono garantire standard minimi su tutto il territorio nazionale. La concessione dell’autonomia è subordinata alla definizione dei LEP e alla disponibilità di risorse finanziarie.

Una cabina di regia ministeriale sarà responsabile della coordinazione, assistita da una segreteria tecnica. Il governo ha l’obbligo di definire i LEP entro 24 mesi dall’entrata in vigore del disegno di legge, con un periodo di 5 mesi per raggiungere un accordo tra Stato e Regioni. Le intese avranno una durata massima di 10 anni e potranno essere rinnovate o terminate previo preavviso di 12 mesi.

Infine, è stata introdotta una clausola di salvaguardia che consente al governo di intervenire nei confronti di Regioni, province e Comuni inadempienti o in situazioni di pericolo per la sicurezza pubblica, specialmente per garantire i LEP sui diritti civili e sociali (Autonomia differenziata, il ddl approvato al Senato. Dalla scuola alla sanità, cosa cambia, “Sky Tg24”, 23 gennaio 2024).

 I punti chiave

– Richieste di Autonomia, partono su iniziativa delle stesse Regioni, sentiti gli Enti locali.

– 23 materie, tra queste anche la tutela della salute. Ci sono poi, tra le altre, Istruzione, Sport Ambiente, Energia, Trasporti, Cultura e Commercio Estero. Quattrodici sono le materie definite dai Lep, Livelli Essenziali di Prestazione.

– Determinazione Lep, la concessione di una o più “forme di autonomia” è subordinata alla determinazione dei Lep, ovvero i criteri che determinano il livello di servizio minimo che deve essere garantito – è specificato nel testo – in modo uniforme sull’intero territorio nazionale. La determinazione dei costi e dei fabbisogni standard, e quindi dei Lep, avverrà a partire da una ricognizione della spesa storica dello Stato in ogni Regione nell’ultimo triennio.

– Principi di trasferimento, l’articolo 4, modificato in Aula al Senato da un emendamento di FdI, stabilisce i princìpi per il trasferimento delle funzioni alle singole Regioni, precisando che sarà concesso solo successivamente alla determinazione dei Lep e nei limiti delle risorse rese disponibili in legge di bilancio. Dunque senza Lep e il loro finanziamento, che dovrà essere esteso anche alle Regioni che non chiederanno la devoluzione, non ci sarà Autonomia.

– Cabina di regia, composta da tutti i ministri competenti, assistita da una segreteria tecnica, collocata presso il Dipartimento per gli affari regionali e le autonomie della Presidenza del Consiglio. Dovrà  provvedere a una ricognizione del quadro normativo in relazione a ciascuna funzione amministrativa statale e delle regioni ordinarie, e all’individuazione delle materie o ambiti di materie riferibili ai Lep sui diritti civili e sociali che devono essere garantiti in tutto il territorio nazionale.

– Tempi, il Governo entro 24 mesi dall’entrata in vigore del ddl dovrà varare uno o più decreti legislativi per determinare livelli e importi dei Lep. Mentre Sato e Regioni, una volta avviata, avranno tempo 5 mesi per arrivare a un accordo. Le intese potranno durare fino a 10 anni e poi essere rinnovate. Oppure potranno terminare prima con un preavviso di almeno 12 mesi.

– Clausola di salvaguardia, l’undicesimo articolo, inserito in commissione, oltre a estendere la legge anche alle regioni a statuto speciale e le province autonome, reca la clausola di salvaguardia per l’esercizio del potere sostitutivo del governo.

L’esecutivo, dunque, può sostituirsi agli organi delle regioni, delle città metropolitane, delle province e dei comuni quando si riscontri che gli enti interessati si dimostrino inadempienti, rispetto a trattati internazionali, normativa comunitaria oppure vi sia pericolo grave per la sicurezza pubblica e occorra tutelare l’unità giuridica o quella economica. In particolare, si cita la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni sui diritti civili e sociali.

LEP e caos

Secondo Bersani uno degli aspetti più controversi sarà la definizione dei LEP, ovvero degli indici e dei criteri che determinano il livello di servizio minimo. Secondo l’ex Ministro, se si prendessero, ad esempio, gli indici di Reggio Calabria riguardo agli asili nido si produrrebbe una involuzione e uno scadimento diffuso dei servizi, viceversa, se si utilizzassero gli indici di Reggio Emilia, la Calabria non potrebbe mai sperare di soddisfare i criteri minimi dei servizi previsti  e, dunque, di poter accedere alle risorse per i servizi all’infanzia.

Inoltre, secondo Fassina autore del testo “Perché l’autonomia differenziata fa male anche al Nord” (Castelvecchi) di cui Bersani ha curato la prefazione, “Si genererebbero danni su vari piani: sia là dove le politiche pubbliche pretendono una proiezione internazionale; sia là dove si alzerebbero confini di fatto insormontabili per necessarie operazioni di acquisti, produzioni e vendite ultra regionali; sia per gli effetti dumping fra le regioni; sia per l’aggravamento del groviglio normativo e burocratico; sia per l’impatto sul nostro elevato debito pubblico e, inevitabilmente, sul costo del credito e quindi sui redditi di lavoratori e lavoratrici e famiglie, oltre che imprese”.

Procedere a vista  

Conclusione: In assenza di una visione complessiva e sostenibile, con equilibri e contrappesi istituzionali, si rischia di accentuare la già grave frattura tra nord e sud e di rendere ingovernabile il Paese.

Dunque, se mettiamo insieme le bugie, le complicità, la confusione, i baratti, le ambiguità, il caos, abbiamo un’idea del recente passato e del presente nell’Italia del XXI secolo. Se consideriamo, invece, il debito, che è il più alto dell’Occidente, la relativa sovranità istituzionale, sia interna che internazionale, il clima selvaggio, dentro e fuori il Parlamento, abbiamo un quadro del futuro. Sembra che non abbiamo grandi alternative se non, navigare a vista, giorno per giorno. E pregare.

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