In Balon il regista Pasquale Scimeca illustra le sofferenze che si nascondono dietro agli esodi africani. Con gli occhi di due bambini
di Massimo Arciresi
Da sempre portato a indagare le ragioni storiche di eventi più o meno conosciuti, ad analizzare personaggi del passato e della contemporaneità, a ripensare i classici di Verga senza dimenticare la sua lezione sul Verismo, il regista siciliano Pasquale Scimeca ha accompagnato nei giorni scorsi al Torino Film Festival (nella sezione Festa Mobile) la sua ultima fatica, intitolata Balon. È la realistica storia di due fratelli di dieci e quindici anni, Amin e Isokè (interpretati da David Koroma e Fatmata Kabia), abitanti in un tranquillo villaggio della Sierra Leone che viene ferocemente depredato e decimato. Orfani e soli, i ragazzini affrontano un viaggio rischioso attraverso il deserto, dove sono raccolti da due caritatevoli archeologi (Raffaella Esposito e Vincenzo Albanese, unici attori con esperienza del cast) che, ingenuamente, li conducono in un campo libico, dove abusi e prepotenze non mancano. Fino a un imbarco verso un futuro inconoscibile ma, alla luce di tante peripezie, inevitabilmente carico di speranza. Qui conta il percorso, non l’esito.
Un’opera semplice, che mette in immagini ciò che è ribadito quotidianamente, e perlopiù indarno, dalle ONG (quelle serie), dotata della schietta e ritornante metafora del pallone da riparare e proteggere perché ci si possa sempre giocare. Abbiamo fatto due chiacchiere con Scimeca in occasione della conferenza stampa organizzata per presentare il suo lavoro.
Il tema dell’immigrazione ci riguarda tutti, benché non sia il centro del tuo film. Tuttavia ritieni che per un autore siciliano sia più urgente da trattare?
«È più urgente perché, come ben sai, i profughi africani arrivano soprattutto sulle nostre coste. Ma non solo per questo. Anche noi sappiamo che vuol dire lasciare la propria terra, la propria casa per cercare condizioni di vita migliori altrove. Negli anni ’50 e ’60 centinaia di migliaia di contadini e minatori meridionali in fuga dalla povertà, dalla miseria sono venuti a Torino o a Milano per lavorare in fabbrica. Questo deve muovere la nostra solidarietà, la nostra comprensione. Non è che il mio film non parli indirettamente di emigrazione, piuttosto racconta quel che succede prima, cosa determina questi processi, le partenze, il desiderio di trovare un posto dove vivere più serenamente.»
Per l’appunto, il tuo film finisce dove molti, invece, comincerebbero…
«Sì, infatti vediamo i bambini salire su un barcone e allontanarsi verso un mare pieno di pericoli.»
Data la tua esperienza nel settore, avevi considerato di girare un documentario anziché un’opera di finzione sull’argomento?
«No, e non certo perché il documentario non rivesta, oggi più che mai, una grande importanza; adesso, tra l’altro, spesso non c’è più la differenza che c’era prima tra le due forme di narrazione. Adotto questo modo di raccontare che non è documentaristico ma presuppone un racconto strutturato. Per quanto alla fine, se ci fai caso, resta molta “verità”: non ci sono costumisti, non ci sono scenografi, abbiamo girato partendo proprio dalla realtà.»
Infine, il pallone, il “balon” del titolo, simbolo di libertà. Perché quello e non un’altra cosa?
«Perché il pallone unisce tutti i bambini del mondo. Giocare a calcio, spingere una palla con i piedi è ciò che tutti i ragazzini sognano, dall’Africa all’Asia all’America Latina. Ma è solo il primo motivo. Il secondo riguarda la sua forma sferica, somigliante a quella della Terra. Il concetto di base è: se il pallone si sgonfia, ne risentiamo tutti noi che ci stiamo dentro. Non va in malora solo l’Africa, o l’Europa; se non costruiamo in questo pianeta un’idea di umanità valida per chiunque, affonderemo.»