Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – Testata di approfondimento fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalist* indipendenti

Borsellino. Dedicato a un giudice

È falso che vi siano servizi deviati, è falso il racconto su mafia e questione meridionale, è falso che vi siano funzionari e dirigenti pubblici collusi, è falso che lo Stato sia complice. È vero che vi sia un doppio Stato. Il mistero dell'agenda rossa di Borsellino è emblematico

di Victor Matteucci

Riguardo al caso del giudice Borsellino, così come in altri, è falso che vi sia l’attività deviata dei servizi, al contrario, i servizi sono virtuosi. Deviante, come sa qualunque studente del primo anno di sociologia è chi devia dall’indirizzo generale e dagli interessi consolidati dalla maggioranza (silenziosa) e del blocco sociale dominante nella sua accezione gramsciana. Storicamente, l’esempio più famoso di devianza è quello del Nazareno che, per questo, fu condannato a morte, perché, appunto, destabilizzava il potere religioso e politico dei sacerdoti e, di conseguenza, la stessa sostenibilità del dominio di Roma che rischiava di essere coinvolta in un grave conflitto sociale.

Dunque, usando questo criterio, deviante è stato Borsellino, rispetto agli interessi politici e dell’economia di mercato, e non i Servizi o la massoneria, che sono strutture e associazioni contemplate e consolidate a livello nazionale e internazionale, e tantomeno lo Stato che di esse si serve.

È falso il racconto su mafia e questione meridionale

Anche sulla irrisolvibile questione meridionale e sulla lotta alla criminalità organizzata si racconta una banale storia popolare di guardie e ladri, non vera, come sa bene, anche in questo caso, qualunque studente di economia. In realtà, la criminalità è, dal punto di vista economico, una conseguenza collaterale del libero mercato, che esige, oltre al lavoro necessario, un certo lavoro eccedente, un esercito di lavoratori disoccupati (la sovrappopolazione relativa) per poter contrarre il costo del lavoro. Così come richiede il lavoro precario da sfruttare con contratti temporanei, o il lavoro individuale a cui affidare subappalti selvaggi. Da tutto questo, povertà, disagio, parassitismo, criminalità, e ambienti relativamente idonei. Dal punto di vista storico, invece, la criminalità organizzata, e Cosa Nostra nello specifico, è il retaggio di una cultura parassitaria e della rendita che è un tratto essenziale della borghesia e dell’aristocrazia meridionale, riguardo all’uso del capitale e riguardo alla gestione della proprietà. Senza contare che i gabellotti erano al servizio della borghesia rurale come sorveglianti delle loro proprietà con il compito di vigilare sul lavoro schiavistico dei contadini.

Portella della Ginestra

Dunque, che piaccia o no, la mafia è un prodotto storico, sociale ed economico della borghesia meridionale che ieri agiva in nome e per conto dei proprietari dei feudi, e che oggi, in un contesto di libero mercato, attraverso una sovranità territoriale, garantita da disoccupazione e sottosviluppo, agisce come agenzia sussidiaria allo Stato. Di conseguenza, il sottosviluppo del sud non è dovuto a qualche tara ereditaria o a una malattia pandemica diffusasi da Roma in giù nel Novecento, ma definisce un’area di risulta per economie di risulta e per borghesie di risulta, necessaria per lo sviluppo di altre aree Paese. Allo stesso modo di come lo sono, necessarie, le periferie del disagio per le città del benessere e come lo è, necessaria, l’Africa affamata per l’Occidente obeso. E questo, dovremmo ormai averlo acquisito se avessimo studiato Braudel e un po’ di modelli economici di sviluppo. Perciò, così stanno le cose e tali deve rimanere.

È falso che vi siano funzionari e dirigenti pubblici collusi

Anche, riguardo ai presunti dirigenti dello Stato e ai funzionari pubblici che sarebbero collusi e corrotti circolano racconti surreali e inverosimili. In realtà, costoro non sono  affatto né collusi, né corrotti, al contrario, sono i più efficaci, i più diligenti ad eseguire gli ordini e i più affidabili ad attenersi alle procedure stabilite dai livelli direzionali da cui dipendono. Anche qui si possono citare vari esempi, uno su tutti, il giudice Carnevale, il cosiddetto giudice ammazzasentenze, ma anche il colonnello Mori, Contrada ecc. Veri servitori dello Stato. Fermo restando che molti nomi eccellenti non saranno mai resi noti.

D’altra parte, per fare l’esempio più recente, se i presunti autori del patto Stato-Mafia fossero stati riconosciuti colpevoli di qualche reato, le varie sentenza, l’ultima in Cassazione, lo avrebbero sanzionato. Invece il giudizio è stato che, non hanno fatto niente e, se hanno fatto qualcosa, lo hanno fatto nell’interesse dello Stato.  Tanto che secondo il giudice Di Matteo, “la sentenza della Cassazione è un colpo di spugna che cancella vicende troppo scabrose per il Paese” (Festival internazionale dell’Antimafia organizzato dall’associazione Wikimafia a Milano per presentare il volume “Il colpo di spugna, Trattativa Stato-mafia: il processo che non si doveva fare”, scritto da Lodato e Di Matteo – 13 aprile 2024 ). Più chiaro di così…

Il doppio Stato

Lo stesso discorso vale per la massoneria deviata, Gladio, ecc.  Non c’è niente di deviato. Tutto è molto lineare e comprensibile, in realtà. Infatti, sulla legalità, si consuma, da anni, un clamoroso equivoco. Esiste, ma non tutti sembrano esserne al corrente, nonostante che l’Italia sia un esempio mondiale, da Portella della Ginestra in poi, un doppio Stato, uno formale e uno materiale. Lo Stato, nella sua versione materiale, così come ha spiegato Fraenkel è libero di agire, al fine di perseguire la sua ragion di Stato, con ogni mezzo necessario, utilizzando il criterio dell’eccezionalismo dalle norme, quello emergenziale, del diritto all’autodifesa, o più semplicemente, senza dover accampare alcun motivo specifico, quello di promuovere prassi e relazioni segrete e riservate per garantire la condivisione di indirizzi politici ed economici. Lo Stato può, quindi, esentarsi dalla stretta osservanza delle norme sospendendo, per esempio, le garanzie democratiche, depistando indagini, garantendo immunità (o prescrizione) ai suoi funzionari comandati per operazioni coperte, o ricorrendo indirettamente a strategie di tensione, quando la sua sicurezza e le sue dinamiche lo richiedessero.

È falso che lo Stato sia complice

Lo Stato, in nome dell’interesse collettivo, può dunque agire secondo una ragione materiale che subentra e sostituisce quella formale, qualora lo si ritenesse utile e necessario. Questo intervento extra legem è necessario, in particolare in Italia, in relazione ad alcune attività, promosse autonomamente ed incautamente da giudici, politici, sindacalisti o giornalisti irragionevoli, che si rendessero responsabili di iniziative personali considerate eversive e destabilizzanti per gli equilibri politici di governo e per la sostenibilità economica del Paese. Ma qui non c’è la rilevanza di una complicità, quanto, piuttosto, quella di un ruolo da mandatario, o quantomeno, da comandatario.

Strage di Via D’Amelio (archivio fotografico Antimafiaduemila)

Da Portella della Ginestra a via D’Amelio, la secretazione degli atti o il presunto depistaggio di inchieste, attentati e stragi dimostra solo che, per ragioni di Stato, non tutti possono sapere tutto. Perciò lo Stato, sulla base di un interesse che ritiene generale, può intervenire anche al di fuori della legalità con operazioni e servizi coperti e, se necessario, anche con il ricorso alla manovalanza criminale, se questo consente di ristabilire ordine ed equilibri minacciati da iniziative indipendenti ed eccentriche rispetto al blocco sociale dominante.

Ecco la risposta al giudice Carlo Palermo, quando si domandava: “Ma che ho fatto?”, essendo stato minacciato di sospensione per aver scoperto l’intreccio tra traffico internazionale di droga e di armi, imprese e banche, servizi e massoneria (la loggia massonica Iside 2 nel Centro studi Scontrino), nonché il ruolo finanziario internazionale della Banca di Girgenti di Agrigento, le cui quote di maggioranza erano state acquistate dalla società Dominion Group (tramite la Dominion Trust). La stessa banca (con filiale a Trapani) che Falcone aveva indicato come punto di collegamento tra la Banca di Credito e Commercio Internazionale e la mafia siciliana.

Quali sono, dunque, in sintesi, queste iniziative destabilizzanti? Quelle che mettono in crisi interessi politici, economici e finanziari ritenuti strategici a livello nazionale e internazionale, dagli appalti pubblici all’invio di armi, dal traffico dei rifiuti speciali alla gestione dei servizi, dal sistema del credito compiacente al riciclaggio finanziario di capitali.

E chi sono questi soggetti destabilizzanti che disturbano? E anche qui potremmo citare centinaia di esempi, da Rizzotto a Mattei, da Rostagno a Falcone, da Palermo a La Torre, da Impastato a Borsellino, e via dicendo.

Il silenzio e il caos

Uno dei casi più emblematici in questo senso, perciò uno misteri destinati a rimanere tali, è la vicenda legata alla borsa di Borsellino, prelevata sul luogo della strage, e la conseguente sparizione della agenda rossa del giudice.

La redazione 19 luglio 1992.com ha pubblicato una drammatica inchiesta su questo argomento dal titolo “Paolo Borsellino e l’agenda rossa”. Un’inchiesta che, tuttavia, nonostante la ricostruzione accurata e gli inquietanti interrogativi che solleva, non sembra abbia sortito le reazioni che avrebbe dovuto in un Paese normale. In questi casi il silenzio è d’oro.

Una borsa che cammina da sola

In uno dei capitoli di questo libro inchiesta, Federica Fabretti ripercorre le dinamiche relative alla borsa del Giudice, subito dopo l’attentato di via D’Amelio, con un titolo ironico: “Una borsa che cammina da sola”.

Dopo aver premesso che dalle indagini e dalle testimonianze è stato accertato che l’agenda fosse nella borsa di Borsellino, la prima dichiarazione sorprendente che Fabretti riporta è quella dell’allora capo della Mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera, secondo il quale “con molta probabilità l’agenda era stata bruciata dalle fiamme in via D’Amelio”.

Sembrava una spiegazione logica e plausibile finché, colpo di scena, anni dopo, una fonte riservata non “segnala ad Antimafia duemila l’esistenza di una foto (di Paolo Francesco Lannino) che ritraeva un carabiniere in borghese aggirarsi in via D’Amelio nei minuti successivi l’esplosione con in mano la borsa appartenuta a Borsellino”.

A questo punto, visto che la borsa in cui era contenuta era stata recuperata integra, sarebbe stato inverosimile insistere con la versione dell’agenda bruciata; perciò, La Barbera non può che delegittimare chi si ostinava a cercarla. Secondo questa nuova strategia di difesa, l’agenda non sarebbe mai esistita e, infatti, risulta che La Barbera si fosse rivolto ad Agnese Borsellino asserendo che “fosse frutto di sue farneticazioni”.

Ma come abbiamo detto, è stato accertato che l’agenda fosse sul tavolo del giudice Borsellino e che, quando lui era uscito di casa, non ci fosse più. Dunque, è evidente che sia stata inserita da Borsellino stesso nella borsa che aveva preso con sé. Inoltre, il giudice si era messo alla guida della sua auto, diretto a via D’Amelio, dove si sarebbe verificata l’esplosione della bomba, senza che con lui, in auto, vi fossero altri passeggeri.

Dopo l’attentato, dunque, questa borsa è in mano a qualcuno che si allontana da luogo della strage.

Ma, nonostante la foto, nonostante i video che successivamente furono acquisiti, nonostante fosse stato individuato il carabiniere che aveva con sé la borsa subito dopo l’attentato, il capitano Giovanni Arcangioli, mentre questi procedeva in direzione di via Autonomia Siciliana, nonostante  costui fosse stato indagato per false dichiarazioni al PM  e iscritto nel registro degli indagati per il reato di furto con l’aggravante di aver favorito l’associazione mafiosa, il 1 aprile 2008 il giudice (GUP) di Caltanissetta, Paolo Scotto di Luzio, dichiarò il non luogo a procedere “per non aver commesso il fatto” e, nel febbraio del 2009, la sesta sezione penale della cassazione lo avrebbe addirittura prosciolto definitivamente (cfr. L’agenda rossa, cap. tutte le verità occultate pag 143).

A piedi nudi nella palude

Il libro inchiesta ricostruisce le testimonianze dei protagonisti che vennero a contatto con la borsa tra il 2004 e il 2013 nel corso delle udienze dei processi di Borsellino TER e  Borsellino QUATER.

Da queste testimonianze emergono, innanzitutto, due diverse versioni riguardo al prelievo della borsa.

La prima è  quella descritta da Rosario Farinella, componente del servizio di scorta dell’ex giudice Ayala secondo il quale, lui insieme al collega De Simone, e allo stesso giudice Ayala, furono tra i primi a giungere sul luogo della strage, visto che erano nell’hotel Marbella, distante non più di circa 50-100 metri in linea d’aria con il luogo dell’attentato.

Secondo questa prima versione dei fatti, l’appuntato Farinella, con l’aiuto di un vigile del fuoco, avrebbe forzato la portiera dell’auto di Borsellino nella quale Ayala aveva intravisto la borsa, avrebbe recuperato la borsa che Farinelli avrebbe poi consegnato ad un ufficiale in abiti civili che il giudice Ayala gli aveva indicato e con cui il giudice aveva scambiato qualche parola.

La seconda versione è fornita dall’agente F. Paolo Maggi, il quale, invece, asserisce che, perlustrando l’area dell’attentato, aveva notato all’interno di una delle macchine blindate una borsa di pelle e che, con l’aiuto di un vigile del fuoco, aveva aperto lo sportello e preso la borsa dirigendosi verso il suo superiore, il funzionario Paolo Fassari, il quale gli avrebbe ordinato di portare la borsa nell’ufficio dell’allora Dirigente della squadra mobile Arnaldo La Barbera.

Maggi sarebbe andato, così come ordinatogli, presso l’ufficio di La Barbera e si sarebbe imbattuto, nel corridoio, in alcuni colleghi, tra i quali, un tale Di Franco, autista dello stesso dirigente della Mobile, che lo avrebbe accompagnato presso l’ufficio del Dirigente dove Maggi, dichiara, di aver depositato la borsa su un divano.

Ma né Fassari, sentito dal PM di Caltanisetta, ricorda di aver mai ordinato al Maggi di condurre la borsa nella stanza di La Barbera, né i colleghi di servizio che sostavano nei pressi della stanza di La Barbera  avrebbero confermato a verbale di aver visto Maggi, nè che avessero preso da lui in custodia la borsa. Solo da parte di due vicequestori aggiunti si accenna, in modo vago, a una borsa che l’avrebbero intravista (in due posti diversi) e che, tra l’altro, la borsa sarebbe stata aperta.

Dunque, chi prese la borsa? Farinelli o Maggi? Entrambi rivendicano di essere arrivati per primi sul luogo della strage. Ma, secondo la ricostruzione di Federica Fabretti della redazione 19 luglio 1992.com, Farinelli era con il giudice Ayala al Marbella Residence distante circa 600 metri da via D’Amelio e, subito dopo l’esplosione, partirono immediatamente.

Maggi, ricevuta la notizia dell’attentato, si reca, invece, prima in corso Pisani che è a circa 6 km dal luogo dell’attentato, per prendere a bordo Fassari e, solo dopo, raggiunge via D’Amelio. Sembra evidente che sia impossibile che possa essere arrivato prima di Farinelli.

I giudici Paolo Borsellino e Giuseppe Ayala

Mister(o) AYALA

L’ex giudice e allora parlamentare Giuseppe Ayala ha fornito, riguardo al prelevamento della borsa, cinque versioni differenti. Su due punti, invece, è stato sempre coerente. Non sapeva che in via D’Amelio abitasse la madre di Borsellino e non conosceva l’ufficiale al quale consegnò la borsa. (pag.119 Borsellino e l’agenda Rossa, op. cit.).

Come si legge dal libro inchiesta in oggetto, l’8 aprile 1998, sette anni prima che comparisse la foto che ritrae Arcangioli con la borsa. Ayala aveva affermato che dal residence Marbella, a circa 200 metri in linea d’aria, sentita l’esplosione si sarebbe recato a piedi verso via d’Amelio, che davanti all’auto di Borsellino ci fosse un ufficiale dei carabinieri in divisa che gli aprì la portiera estrasse la borsa per consegnargliela, ma che lui avrebbe rifiutato di prenderla in mano.

Tre mesi dopo, il 2 luglio 1998, deponendo a Caltanissetta nel processo Borsellino TER, avrebbe confermato la versione precedente con una modifica: “Non era più sicuro che la persona che prese la borsa dalla macchina fosse un carabiniere in divisa“.

Il 2 settembre 2005, Ayala sarebbe stato sentito di nuovo in merito al ritrovamento della foto che ritraeva Arcangioli con la borsa del Giudice Borsellino. Dopo aver ribadito che era arrivato a piedi e di non sapere che in via d’Amelio abitasse la madre di Borsellino, modifica le precedenti versioni. La portiera dell’auto del Giudice assassinato era aperta, prese la borsa ma, consapevole di non aver alcun titolo per tenerla, l’avrebbe consegnata ad un ufficiale dei carabinieri in divisa che era nei pressi e che non conosceva. Riguardo ad Arcangioli che nella foto aveva la borsa, Ayala affermò di non conoscerlo, ma che non poteva escludere che si trattasse dell’ufficiale a cui aveva affidato la borsa.

L’8 febbraio 2006, ascoltato dai magistrati Nisseni, il giudice Ayala modifica nuovamente la propria versione dei fatti. Chi ha prelevato la borsa non era in divisa, ma in abiti borghesi, non fu quindi lui ad estrarla dall’auto ma la prese in mano e la consegnò ad un ufficiale in divisa nei pressi.

Secondo Ayala, il giornalista Felice Cavallaro avrebbe potuto confermare la sua versione, anche se nella prima dichiarazione del ‘98 Cavallaro sarebbe comparso sulla scena solo dopo l’avvenuto prelievo della borsa dall’auto.

Sempre l’8 febbraio 2006, Ayala viene messo a confronto con Arcangioli, che aveva nel frattempo dichiarato di aver ricevuto l’ordine di prendere la borsa probabilmente da Ayala e di avervi guardato all’interno insieme a lui. Ayala, nel corso del confronto, nega di aver mai conosciuto Arcangioli e di aver mai aperto e ispezionato la borsa di Borsellino.

Il 23 luglio 2009, Ayala rilascia un ‘intervista al sito Internet affariitaliani.it  durante la quale cambia di nuovo versione:

La borsa nera di Borsellino l’ho trovata io, dopo l’esplosione sulla macchina. Che ci fosse, nessuno lo può sapere meglio di me, perché l’ho presa io. Nessun titolo per farlo. Non l’ho aperta io perché ero già deputato e non avevo nessun titolo per farlo. (…) Ma io sono arrivato per primo sul posto perché abito a 150 metri. Anche prima dei pompieri. Quando l’ho trovata l’ho consegnata ad un ufficiale dei carabinieri. È verosimile che l’agenda fosse dentro la borsa e che sia stata fatta sparire” (Ayala: Mancino incontrò Borsellino, Floriana Rullo www.affariitaliani.it, 23 luglio 2009).

Questa ultima versione del 2009 sarà confermata dallo stesso Ayala il 7 aprile 2013 in un intervento al festivalegalità di Venezia.

Il 14 maggio 2013, all’udienza del processo Borsellino QUATER, il giudice Ayala fornisce una quinta versione di quanto accaduto il 19 luglio 1992. In questa ultima versione non è più solo e non si incammina più a piedi in direzione di via D’Amelio, ma con i due uomini della scorta e a bordo dell’auto. Arrivato a via D’Amelio, Ayala afferma di essersi diretto verso l’epicentro dell’esplosione. L’auto di Borsellino aveva la portiera posteriore aperta, perciò avrebbe preso lui stesso la borsa e l’avrebbe consegnata ad un ufficiale dei carabinieri. Secondo Ayala, nei pressi c’era qualche esponente delle forze dell’ordine, più di uno, in abiti borghesi, e c’era il giornalista Felice Cavallaro.

Alla domanda specifica di chi avesse prelevato la borsa, Ayala risponde:

Ora, se materialmente l’ho presa io o se questa persona me l’ha data, io francamente questo è un dettaglio che non ricordo (…) la cosa importante è che io questa borsa l’ho avuta in mano, non c’è dubbio e l’ho consegnata immediatamente ad un ufficiale dei carabinieri, e li finisce il mio rapporto con la borsa”.

Il pubblico Ministero chiede se qualcuno della sua scorta si fosse intromesso o si fosse adoperato in riferimento al prelievo della borsa dall’autovettura. Ayala risponde seccamente: “Lo escludo”.

Il magistrato rivolge ancora ad Ayala varie domande, in particolare se fosse stato al corrente o meno che Borsellino avesse un’agenda. Ayala risponde che non frequentava Borsellino da circa 6 anni, che le agende le hanno tutti, che non poteva conoscerne il contenuto, che non aveva mai collegato la borsa alla sparizione dell’agenda. E alla domanda se avesse o meno aperto la borsa, Ayala risponde che “se l’agenda fosse stata nella borsa e se qualcuno l’avesse aperta avrebbe sottratto l’agenda senza svuotare la borsa, quindi con un criterio selettivo. “Allora – aveva aggiunto – ci vuole qualcuno che abbia avuto il tempo di tirarla fuori, leggere e ritenere, tradendo le istituzioni, che era meglio che quella roba non venisse fuori: Lei pensa fosse possibile farlo in quel contesto davanti a decine di persone? (….) Senza che nessuno se ne accorgesse?” (pag. 119 –  132, Borsellino e l’agenda Rossa, op. cit.)

L’uomo della foto con la valigia nella mano

Giovanni Arcangioli, al tempo capitano dei Carabinieri, è l’uomo ritratto in una foto mentre con la borsa del Giudice Borsellino cammina in direzione di via autonomia Siciliana.

Il 5 maggio 2005, davanti ai magistrati, Arcangioli fornisce la sua prima versione su quanto accaduto in via D’Amelio, subito dopo la strage.

(…)  “Allorché giunsi sul posto la scena del delitto non era stata ancora perimetrata anche se erano già arrivati elementi del Battaglione Carabinieri che stavano provvedendo a delimitare la zona. Vi erano all’opera i Vigili del Fuoco e, per quanto posso ricordare, arrivò per primo il magistrato dottor Ayala che abitava nei dintorni; vi erano poi abitanti dei palazzi e semplici curiosi. Esaminai la scena e, avendo rinvenuto i resti del doti. Borsellino, mi fermai immediatamente in attesa dell’arrivo degli esperti e di coloro che avrebbero dovuto attivare le indagini. Aggiungo che all’inizio non avevo neanche riconosciuto l’autovettura del dott. Borsellino che per la violenza e il calore dell’esplosione aveva perduto la vernice della parte posteriore tanto da sembrare bianca. Arrivò sul posto il dottor Teresi e anche il dott. Di Pisa, magistrato di turno. Non ricordo se il dottor Ayala o il dottor Teresi, ma più probabilmente il primo dei due, e sicuramente non il dottor Di Pisa, mi informarono del fatto che doveva esistere una agenda tenuta dal dottor Borsellino e mi chiesero di controllare se per caso all’interno della vettura vi fosse una tale agenda, eventualmente all’interno di una borsa. Se non ricordo male, aprii lo sportello posteriore sinistro e posata sul pianale dove si poggiano di solito i piedi, rinvenni una borsa, credo di colar marrone, in pelle, che prelevai e portai dove stavano in attesa il dottore Ayala e il dottore Teresi. Uno dei due predetti magistrati aprì la borsa e constatammo che non vi era all’interno alcuna agenda, ma soltanto dei fogli di carta. Verificato ciò, non ricordo esattamente lo svolgersi dei fatti. Per quanto posso ricordare, incaricai uno dei miei collabora­tori di cui non ricordo il nome, di depositare la borsa nella macchina di servizio di uno dei magistrati”.

Il giudice Alberto Di Pisa

Arcangioli ha, inoltre, ricordato che sul luogo della strage fosse pre­sente il magistrato Alberto Di Pisa.

Il Giudice Di Pisa era stato uno dei protagonisti della vicenda del “Corvo di Palermo”: il giudice fu condannato nel 1992 in primo grado a un anno e sei mesi perché nel 1989 l’Alto commissario per la lotta alla mafia, Domenico Sica, indicò fosse sua l’impronta digitale lasciata su uno dei messaggi anonimi di accuse inviati ai magistrati Giovanni Falcone, Giuseppe Ayala e Pietro Giammanco, al capo della Polizia, Vincenzo Parisi, e al questore, Gianni De Gennaro. Nel frattempo, nel 1989 Di Pisa era stato trasferito d’ufficio a Messina e, dopo la condanna nel 1992, sospeso dal servizio. Era stato assolto definitivamente nel dicembre 1993 “per non aver commesso il fatto”. Anni dopo Di Pisa dichiarò che le sue impronte furono falsificate per coprire il pentito Totuccio Contorno e, in un’intervista, affermò: “Ci fu una convergenza di interessi, politica, servizi, poteri forti, che avevano l’obiettivo di togliermi le inchieste scottanti che avevo in mano, quella su mafia e appalti, sulla morte dell’ex sindaco Insalaco, sulla massoneria, sugli omicidi di Montana e Cassarà. Il procuratore Giammanco me le tolse tutte ancor prima che arrivasse l’avviso di garanzia“.

La seconda versione di Arcangioli

Ma torniamo a via D’Amelio. Nel giorno del confronto con Giuseppe Ayala, l’8 febbraio 2006, Ar­cangioli ha dato la sua seconda versione, più sfocata della precedente, nella quale ha escluso la presenza di altri magistrati, ma ha confermato quella di Ayala. In quell’occasione Arcangioli ha cambiato il luogo dove avrebbe riposizionato la borsa dopo averla controllata: non si trattò della macchina di un magistrato, ma di quella del dottor Borsel­lino. L’allora capitano dei Carabinieri ha inoltre ricordato un ulteriore particolare, un crest dell’Arma dei Carabinieri all’interno della borsa:

“Non ho ricordo certo dell’affermazione relativo al fatto che il dottor Ayala e il dottor Teresi mi ebbero ad informare dell’esistenza di un’agenda tenuta dal dottor Borsellino. (…) Non ricordo con certezza se io o il dottor Ayala aprimmo la borsa per guardarvi all’interno, mentre ricordo che all’interno vi era un crest dell’Arma dei carabinieri e non ricordo se vi fosse qualche altro oggetto. Mi sembra, ricordando bene, che non vi fossero fogli di carta. Così come non posso confermare di aver io stesso o uno dei miei collaboratori deposto la borsa nella macchina di servizio di uno dei due magistrati, mentre ritengo di aver detto di rimetterla o di averla rimessa io stesso nell’auto di servizio del dottor Borsel­lino. Sul momento non ritenni di redigere alcuna annotazione perché non attribuivo alcun valore alla borsa, non avendovi rinvenuto niente per la prosecu­zione delle indagini. (…) All’inizio si era incerti sulla competenza a procedere, tanto è che pensavo che procedessimo come Nucleo Operativo, poi ci fu detto che procedeva il R.O.S e, da ultimo, fu stabilito che procedeva la Polizia di Stato”.

I PM hanno cercato di chiarire alcuni punti e Arcangioli ha risposto:

Non riesco a ricordare se mentre mi recavo sul luogo della strage mi fu detto per radio che una delle vittime era il dottor Borsellino. (…) Prelevata la borsa mi spostai andando verso i palazzi di fronte all’abi­tazione della mamma del dottore Borsellino, non ricordo se scendendo in direzione di via Autonomia Siciliana o in direzione opposta. Ricordo comunque di non aver mai superato, portando la borsa, il cordone “di Polizia ” che sbarrava l’accesso alla via D’Amelio. Non ho un ricordo preciso. Posso comunque affermare con certezza che, quando ho aperto la borsa per esaminarne il contenuto, mi trovavo nel luogo che già ho indicato e cioè sul lato opposto della via D’Amelio rispetto alla casa della madre del dottore Borsellino. Non so dire, però, a quale altezza rispetto all’asse longitudinale della strada. Quando ho aperto la borsa credo di ricordare che era con me il dottore Ayala; credo anche di ri­cordare che vi era altra persona, di cui però non so indicare alcun ele­mento identificativo. Per quanto posso ricordare, il prelievo della borsa fu da me effettuato su richiesta di un magistrato che, per esclusione, dato che non si trattava del dottore Teresi, credo di poter identificare nel dottor Ayala. La verifica del contenuto, per quanto ricordo, fu una iniziativa condivisa con il dottor Ayala. (…) Non riesco a ricordare se la prelevai direttamente io, ovvero, se fu altra persona di cui comunque non conservo memoria. (…) Ricordo di aver verbalmente riferito al mio superiore dell’epoca, Capitano Minicucci, in ordine al contenuto della borsa del dottore Borsellino ed in particolare che vi si trovava un crest dei Carabinieri”.

Arcangioli ha fatto, quindi, entrare in scena il suo superiore dell’epoca, il capitano (oggi tenente colonnello) Marco Minicucci, il quale, sen­tito dai magistrati, ha ricordato del rapporto a voce che il capitano Arcangioli gli fece circa il rinvenimento della borsa e del coinvolgi­mento di un magistrato presente sul posto, di cui, però, Minicucci non ha ricordato il nome

La testimonianza al processo ‘Borsellino QUATER’

Il 14 maggio 2013 Giovanni Arcangioli ha deposto a Caltanissetta al processo ‘Borsellino QUATER’. Il tenente colonnello ha iniziato la sua testimonianza denunciando le vicissitudini e le difficoltà passate dal giorno del ritrovamento della foto che lo ritraeva con la borsa del giudice in mano e ha detto alla Corte di non essere nelle condizioni di serenità necessarie per poter rendere una testimonianza utile. E, infatti, la sua testimonianza è stata piena di “non ricordo” e di “non posso esserne sicuro”. Arcangioli ha confermato solo una piccola parte dei ricordi affiorati nelle precedenti versioni:

“Quando mi hanno dato quella borsa – ha testimoniato Arcangioli – ho aperto la borsa e ho controllato, non ho visto niente di importante, la borsa aveva un valore pari a zero. La cosa che mi ha colpito è stato questo crest dei Carabinieri. (…) Il primo dei magistrati che vidi io fu il dottor Ayala. Il 19 luglio conoscevo già il dott. Ayala (…) frequentavo la procura e in procura ho visto e conosciuto il dottor Ayala. Non credo di averci mai fatto indagini. Non ricordo di aver avuto contatti personali con il dottor Ayala, ricordo che quella persona fosse il dottor Ayala e ricordo di averlo visto in procura. (…) Oltre al crest c ’era qualcos’altro ma non ha attirato assolutamente la mia attenzione. (…) Non ricordo di averla presa io la borsa dalla macchina; quindi, immagino che me la abbiano passata. (…) Io mi ricordo la presenza del dottor Ayala, mi ricordo che fece un qualche cosa, non ho il ricordo esatto di cosa fece.

Giovanni Falcone e Salvatore Borsellino (foto Tony Gentile)

Sulla mancata relazione di servizio Arcangioli ha affermato: “In quel contesto non avevo necessità, non avevo, diciamo così, dovere di fare relazione di servizio, diverso è quando uno non la fa e la fa a posteriori dopo sei mesi. Però a me viene contestata questa cosa come tante altre, ad altri queste cose non vengono contestate“.

Durante l’udienza Arcangioli ha sottolineato più volte che agli atti del suo procedimento furono acquisiti solo dei riassuntivi e non gli integrali degli interrogatori, dove, secondo lui, si sarebbero evinte le incertezze e la confusione che ebbe sin dall’inizio circa i suoi ricordi. Inoltre, l’allora capitano dei Carabinieri ha lamentato più volte una disparità di trattamento tra se stesso e chi ha modificato più volte la propria versione (con riferimento indiretto a Giuseppe Ayala) o chi ha redatto una relazione di servizio con cinque mesi di ritardo, seppur appartenente all’organo che fu ufficialmente incaricato di svolgere le indagini, riferendosi quindi all’agente di Polizia Francesco Paolo Maggi” (pag. 133 – 139 – Borsellino e l’agenda Rossa, op. cit.)

Senza commenti. Ma crediamo che i lettori sappiano farsi un’opinione da sé.

Conclusioni

Lasciamo le conclusioni a Sciascia che chiude il racconto de “I pugnalatori” in questo modo: Ad un certo punto del suo intervento (…) Francesco Crispi aveva detto “Penso che il mistero continuerà e che giammai conosceremo le cose come veramente sono avvenute. Si preparava a governare l’Italia”.

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3 Responses

  1. Io eviterei di dare l’applauso finale a uno scrittore che, per vanità, s’è fatto usare dal giornale della P2 contro Borsellino e Orlando. Il resto, per quanto unpo’ rozzo inalcuni passaggi,è ottimo. Nella bibliografia mancano i “SicilianI”, ma siamo in Italia. ed è normale-

    1. Grazie Riccardo,
      poi mi spiegherai i punti che consideri un po’ rozzi. Rispetto alla bibliografia, non ho citato tutti quelli che avrei dovuto, hai ragione. I Siciliani meriterebbero di essere citati sempre. Riguardo a Sciascia, non lo liquiderei per un articolo, su cui so che ci sono stati chiarimenti tra di loro.

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