L’itinerario di una piccola ma intensa galleria di piccoli ritratti, dal primo al secondo Novecento, concentrati nella collezione Salvia De Stefani: da Guttuso a Topazia Alliata, da Migneco ad Amorelli a Bruno Caruso; da Michele Dixit a Edoardo Franceschini a Gigi Martorelli; e ancora: da Daniele Schmiedt a Disma Tumminello ad Aurora Varvaro.
di Aldo Gerbino
Tra Espressionismo, armonie compositive e tinte informali
Il ritrattino di Giuseppe Migneco (1954), storico rappresentante di “Corrente”, non può che inserirsi nell’esteso scenario d’un realismo sociale in virtù della sua incisione prodotta per segni forti, a volte duri, a delimitare, con scioltezza provocatoria, la corporeità espressa in quel suo linguaggio accostato, per esuberanza, alla rappresentazione figurativa prodotta con conio sudamericano. Al contrario, il realismo accolto nel piatto tiepido dei sentimenti sociali e della passione nostalgica (per l’agonia della civiltà agropastorale), avvincono l’autoritratto di Saro Mirabella, per poi scemare nella narrazione didascalica di Franco Monaco (1959) o nella polarità descrittiva di Rosanna Musotto Piazza, o nei sereni racconti di Giuppi Nantista (1978) e Fiammetta Oliver Di Napoli, fino alla plasticità vogliosa dell’efficace matita di Emanuele Pandolfini: un espressionismo venato di quella «ironia spagnola» rilevata, a suo tempo, da Bruno Caruso. Al brio espressivo di Beatrice Pasqualino, soffuso nel taglio corposo dei piani, si accosta l’olio su compensato (1953) di Lia Pasqualino Noto. Questa allieva di Onofrio Tomaselli, entrata in contatto con le esperienze dell’avanguardia e con il futurista Pippo Rizzo, avverte l’urgenza di un rinnovamento linguistico attraversando e superando l’alveo del novecentismo. Mostra, in tal modo, nella sua interezza spirituale, l’indole raffinata, intima e allo stesso tempo acerba, venata da tonalismi che ingentiliscono il prodotto compositivo, corroborando con la sua presenza quel dialogo del “Gruppo dei Quattro” (Renato Guttuso, Nino Franchina, Giovanni Barbera e Lia Pasqualino Noto), grazie, annota Guttuso, a quel «suo modo istintivo di accarezzare corpi, oggetti, paesaggi, con la sua pennellata fluttuante, personalissima, discreta». Distanza corposa con l’autoritratto, intriso di lirica calligrafia, di Fernanda Paternò Castello, ma forse, come vuole il poeta Fiore Torrisi, «sottesa da una venata simbologia». È con Aldo Pecoraino che si avverte in pieno il giudizio di Giacomo Baragli, in quanto questo artista (e la tempera su compensato del suo autoritratto sembra per elegantia confermarlo): «contrappone la storia naturale di una “fascia di natura umanizzata” che è l’unico habitat proponibile per l’evoluzione della specie.» A tale evoluzione sembra rispondere il senso della quieta decorazione di Manfredo Pedicini con la tempera del 1942, tagliata nelle varie parti da segni composti e lucidi, mentre l’olio, a firma del giovane Nicola Pucci, fa emergere un tono e una materia pittorica articolati da una vivace e non retorica promiscuità psicologica, sviluppando e amplificando vibranti sensibilità chiaroscurali, avvolte da uno smalto di crepuscolare intimità. Dalla incisione su cartoncino del 1958, fresca e delicata di Alba Rizzo la presenza del padre, Pippo Rizzo assume un commovente significato di continuità familiare. Rappresentativo protagonista del futurismo siciliano appare centrato nella fissità di una anacronia temporale, con uno zigomo raggiunto dallo spigolo del quadro cui attende, in un’intenzione di colori caldi e magnetici, volumetrie scandite da ritmi armonici e costanti. Il percorso si prolunga sulle cifre elaborate da Maria Sabatini, dal taglio deciso e dalla corporeità sicura, ora al modello pre-informale di Ninni Sacco, quasi sembianza lacerata dalla luce, visibile nel rossiccio torpore d’un sentimento, nell’accenno anatomico del viso oltrepassato trasversalmente, prima del dissolvimento, da evidenze euclidee. Ora l’agile e interattiva composizione tra figura e paesaggio urbano s’innesta nel manierismo pittorico di Gery Scalzo per essere conquistata dall’essenziale incisione di Giovanni Schifani (1945), un autoritratto equilibrato e sobrio, in cui si va declinando il senso dell’armonia compositiva. Altre sembianze si accendono nella massa mobile dei colori profusi da Daniele Schmiedt, o nella efficace matita dai forti accenti chiaroscurali e vivido plasticismo di Michele Semeraro, oppure nell’olio su compensato (1960) di Giuseppe Stivala aperto, bozzettisticamente, a campiture poste in diagonale, quasi a voler conferire, ma senza riuscirvi, movimento all’insieme; o ancora in altre figure nutrite da commistioni materiche come nella tecnica mista di Saro Tanzi (1965), o nell’ordinata campitura di Mario Tornello (1952), o in quel groviglio segnico, quasi un folklorico espressionismo, elaborato dalla tecnica mista (1958) di Disma Tumminello. E con Aurora Varvaro, in una mitografia casoratiana, si dà corpo alla dimensione spirituale della sua tempera (1955), quasi a conquistare, al fine, l’ottocentesco flauto di canna tenuto dal maestro Giovanni Varvaro. Vivace ed eclettico artista del primo Novecento, vissuto nell’idea non stemperata della tradizione, orienta la sua ricerca ad un decorativismo geometrizzante votato alla pienezza somatica, fino ad approcciare stilemi del secondo futurismo, sempre disponibile, comunque, a testimoniare della sua umanità creativa e pedagogica.
Una materia, dunque, del corpo e dell’anima emerge e si solidifica in questa catenaria di autoritratti: destinati alla restituzione; quella ‘restituzione’che Georg Simmel nel suo Problema del ritratto pone come complesso motivo di centralità estetica. Complessità insita nella ritrattistica, nella sua dinamica, in cui sono i tratti del volto, nel loro biologico cooperare, ad esprimere attraverso la «loro unione» anatomica, un preciso conflitto, superato dall’anima, dalla urgenza spirituale che unifica. Può essere raccolto, appunto, un dubbio, un deragliamento da ciò che crediamo di toccare con la certezza della mano, di vedere con la definizione dell’occhio o d’intuire con l’ausilio dell’inconscio. Da tale scarto, il bagliore di un’intimità immateriale fende l’aria e ci colpisce adornando la nostra ragione di nuove sorgenti di riflessione.
(fine)