L’itinerario di una piccola ma intensa galleria di piccoli ritratti, dal primo al secondo Novecento, concentrati nella collezione “Salvia De Stefani”: da Guttuso a Topazia Alliata, da Migneco ad Amorelli a Bruno Caruso; da Michele Dixit a Edoardo Franceschini a Gigi Martorelli
di Aldo Gerbino
Tra Realismo e segni onirici
Nella dimensione fluttuante dell’astrazione rivolta alla scomposizione, si dipana l’olio su cartoncino telato di Guido Colli (1966), in un delicato quanto drammatico mutamento della propria identità, in cui il volto si deforma per consegnarsi allo scandaglio d’una impietosa entelechia, d’una severa, quanto stupita, inconoscibilità. Altra non conoscibilità affiora dai due autoritratti di Renzo Collura (un olio e una tempera su faesite del 1958): ora immersi nella cadenza molle dei pigmenti, ora nella decisa marcatura delle linee, in cui la prevalenza del disegno imprime, attraverso la decisa espressività del segno ancora distante dalle suggestioni impressioniste e compositive degli anni successivi, l’inquieta identificazione del proprio essere. Se di Irma Costa, allieva di Gino Morici, si gusta la politezza del segno irradiato dalla sua incisione su cartoncino (1958), di Antonio Cutino si apprezza la risoluzione dell’impianto spaziale, il gioco del cavalletto contrapposto alla figura del pittore nell’atto del ritrarre, in accordo con quel sopito naturalismo novecentesco adornato di domestico lirismo e, non ultimo, con quella plasticità realistica prossima alla compagine figurativa d’un Gregorio Sciltian. Dalla semplicità scolare di Gemma D’Amico o dal barocchismo geometrico di Guido De Bonis si approda all’aggraziata linearità di Francesca di Carpinello in un autoritratto condotto con manuale operosità lungo un ricamo pervaso da colori tenui, soffici. Di impeto espressivo si nutre, invece, l’olio su tavoletta di Maria Grazia Di Giorgio; artista formatasi negli anni Trenta, elabora, a suo modo, quel prontuario ricco di formule rivisitate dalle progressioni estetiche del Novecento, riportando, nei decenni successivi, la personale dimensione cromatica nella fortezza dei pigmenti, quasi espunti dalla materia terrestre, dotati d’una non comune forza tattile. Di contrapposta misura, per essenzialità ‘segnica’, si annuncia (qui ancora, in modo sotterraneo, si cela il mondo astratto, percorso dal divertissement) l’incisione su ardesia di Quintino Di Napoli: dal fondo nero del supporto, una consistente trama definisce i contorni del volto, contorni che vengono esaltati, successivamente, in una vera e propria dismorfia fisionomica, nell’olio su tavoletta di Giancarlo Di Simone, arricchito da connotati onirici, baluginanti. Ora si fa ritorno, con la convincente e sana figura di Michele Dixit Domino (un olio su cartoncino del 1954), alla dinamica di un realismo classico, mosso da tensioni sentimentali, suffragate dall’armonico sviluppo dei colori (il verde, il marrone), in un artista pensoso e gentile inserito, quale modello conoscitivo, nell’umano pulsare. Già, per altro, in Autoritratto nello studio del 1942 affiorano tutti gli elementi del suo palco interiore, le sue acquisizioni, un messaggio personalizzato da Dixit dopo l’adeguato filtro dalla figurazione ottocentesca siciliana, pregno della partecipazione attiva, in senso spirituale, di maestri e amici quali Bergler, Pippo Rizzo, Giovanni Rosone, Eustachio Catalano. Nella composizione geometrizzante della natura e del viso di Sistina Fatta, così come della composita cifra estetica rilevabile nella tempera del 1958 di Franz Ficara, ecco apparire la trasognata immagine di Edoardo Franceschini (un olio su tela del 1953), immersa in una tessitura ancorata nel tempo, quasi ordinata nella idealità d’una teca, inconsueta per un artista che ha rivolto, durante l’arco della sua esistenza biologica e creativa, interessi orientati alla relazione pittura/musica mediata da un linguaggio astratto, frattalico, di notevole suggestione percettiva.
Dalle esigenze espressionistiche al chiarismo, all’astrazione
I toni espressionistici, calcati da un alone verdastro spinto a intridere il volto dell’autore, segnano l’olio del 1956 di Ermanno Gagliardo; in seguito, attraverso il chiarismo tonale di Lina Gorgone, su cui s’adagia una delicata cipria melanconica, e il composto olio di Leo Guida (1954), s’innalza il realismo vorace di Renato Guttuso in cui si accendono e si moltiplicano i tratti d’una facies del Sud esasperata e cruda, privata da ogni edulcorata descrittività. Un ritratto diretto, enfatizzato dal fondo rosso, dotato di una vibrante energia ctonia, volitiva, atta a mostrare il suo dinamismo vitalistico per quel leggere il mondo cui sente di appartenere sin dalle più profonde fibre, e da quando, giovanissimo, il maestro di Bagheria dipinge la sua prima opera di taglio veristico La morte della mula (1924-’25). In ogni lavoro di Guttuso appare inequivocabilmente riflessa la sua professione di fede, ostinatamente legata alla realtà del suo mondo di appartenenza e còlto nella sua essenza metaforica. In una lettera del 7 settembre del 1971, indirizzata al poeta Castrense Civello, affiora tale sentimento territoriale, ed egli con chiarezza ribadisce: «… è inutile che io ti dica come viva sempre in me il legame con Bagheria. Credo, e me ne accorgo sempre più andando avanti con gli anni, che tutto quel che ho capito, le mie mancanze e i miei meriti, le mie virtù e i miei difetti, siano tipicamente bagheresi.» Attraversando i tardivi binari ottocenteschi di Costantino Laganà e quelli figurali resi, nella loro essenzialità di transizione estetica (I→II ’900), da Paolo Leopardi, così quelli del bagherese Leo Licari con le sue composizioni postcubiste e le ampie campiture di colore a contorno dei moduli rappresentativi, Gaetano Lo Manto (1965) ci affida la dimensione più interiore del suo essere e del suo avvertire; quasi in una tomografia dello spazio, nel rapporto col mondo circostante in cui, dal corpo e dalla realtà ad esso prossima (in un tono reso quasi monocromo, scandito da poligonali masse d’azzurro), promana un senso di dispersione fino ad accendersi in uno sguardo fitto, sommerso da una schermaglia di linee insinuanti, provocatorie. Di ridondanza espressiva si carica, al contrario, il ritratto di Giovanni Magenga (1976) per approdare, dalle sue linee e masse ondulate, alla compattezza espressionista di Santo Marino pervaso dal suo consolidato realismo, e più avanti conquistare la scomposizione ottica e i riflessi interiori di Alfredo Marsala Di Vita il quale, attraverso il suo plastico strutturalismo iconico, ci conduce al giudizio di Franco Solmi. Il critico vi legge, infatti, «le forme vivificanti del dubbio, contro ogni costrittiva razionalizzazione di quegli strumenti figurali» imposti dalla civiltà dell’immagine, e che oggi, nei decenni degli anni Duemila, caratterizzano il tessuto sociale della “screen generation”. Non a caso, in seguito, il segno insolitamente metafisico di Gigi Martorelli impone il suo messaggio in questa sua tecnica mista del 1958, come a dimostrare la dinamicità plastico-estetica del suo procedere così aperto nell’affrontare il ventaglio delle urgenze che covano da sempre nella sua pittura. Calligrafia e metafisiche intenzioni si dispongono in questo caso nella parte più profonda della rappresentazione martorelliana, una leva su cui ruoteranno sensi policromatici, spaziali, neofigurativi, astratti.
(continua)