Presentato in molte piazze e innumerevoli scuole. Ecco alcuni elementi che provano ad individuare le ragioni della sua riuscita.
di Luca Licata
È diventato un appuntamento annuale nel ricordo, anzi nella memoria. Una tappa obbligata per tutti coloro i quali ritengono La tela strappata un’opera documentaristica che, oltre al forte carattere giornalistico, tiene in sé per sé le componenti della Storia. Appunto, è proprio il caso di dirlo: “Quando la cronaca diventa Storia”.
A quasi tre anni, infatti, dalla scomparsa dell’autore Giancarlo Licata, il docufilm 1367 La tela strappata torna ad essere “adottato” dalle scuole. “Questo documentario ha un alto valore pedagogico” spiega il direttore del Centro di Cinematografia, Ivan Scinardo. “È un patchwork pensato, studiato e ragionato per un target di studenti, soprattutto delle scuole medie e superiori, che –prosegue Scinardo– hanno già maturato nel loro percorso di studi una coscienza critica e sono in grado quindi, di affrontare ciò che è stato scritto e messo in patchwork nel lavoro de ‘La tela strappata’”.
Il documentario si focalizza sui 57 giorni intercorsi tra le due stragi, quella di Capaci e di via D’Amelio. Narra la cronaca di quei giorni, anzi di quelle ore. Perché lo scorrere del tempo, dei fatti, in quelle giornate tra fine maggio e luglio, si avvertiva in ore, minuti. Come dimostrano i numerosi dispacci dei Ros, che iniziarono a giungere già molte settimane prima dell’impatto. Sentenziando, inesorabilmente, la morte del giudice Borsellino e dei suoi uomini della scorta.
La tela strappata si apre con il funerale di Vito Schifani. La scena della moglie, Rosaria, rimasta nella storia e nelle menti di tutti, da il “la” ad un ragionamento di cosa siano state quelle 1367 ore. Si matura la consapevolezza ad esempio che, già in quei giorni, era chiaro ciò di cui si è parlato e verificato con le indagini, degli anni successivi.
La reazione della gente, il ‘No alla mafia’ di un popolo che, in massa, scende nelle strade. Suggestive le immagini della mobilitazione, delle associazioni studentesche, l’opera di propaganda del comitato dei lenzuoli; poi ancora, le navi della solidarietà giunte da tutta Italia, la marcia dei centomila a Palermo. Testimonianze di vicinanza, arrivano anche da chi la mafia nella propria regione la conosce, ma con altri nomi.
Un’indignazione diffusa, una rabbia talmente forte, fece intuire subito che, dall’indomani, qualcosa – e di cultura antimafia si trattava – era scattata in automatico nella mente della gente. Il classico ‘non ho visto né sentito nulla’ non sarebbe stata più da quel momento, la reazione predominante della nostra cultura. L’atteggiamento omertoso lasciava spazio ad un processo, che vedeva nella voglia di cambiamento, l’obiettivo ultimo da raggiungere. Vengono fuori subito, infatti, i primi identikit degli uomini che, in quei giorni, erano stati visti appostati nella zona dello slargo di Capaci.
Slogan come “la speranza non muore” oppure “le vostre idee cammineranno sulle nostre gambe!”, iniziarono a risuonare nelle strade, nelle piazze. Sono trascorsi più di vent’anni. Queste frasi ancora risuonano nei cortei pieni di ragazzi, che ogni anno, in occasione degli anniversari delle stragi, arrivano a Palermo con le navi della legalità. Segno forse di non voler dimenticare. Non voler dimenticare ciò che si è dovuto maturare nei decenni. Perché, come disse Paolo Borsellino: “Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo”.