Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalisti indipendenti

Damiani, lo stampo non c’è più

di Redazione

Con la morte del cineasta, avvenuta il 7 marzo scorso e annunciata con molta discrezione, il mondo del grande schermo perde uno dei suoi grandi. Storia di un intellettuale che, pur essendo nato nel profondo nord, seppe raccontare una Sicilia acuta e priva di stereotipi

 

di Massimo Arciresi

In parecchi associano il nome di Damiano Damiani a lavori come Confessione di un commissario di polizia al Procuratore della Repubblica, Un uomo in ginocchio o Il sole buio. Opere che provano a raccontare il modus cogitandi della mafia – e di chi vi si imbatte – dall’interno, ricercando il lato umano, tentando di trovare una sintonia con lo spettatore; soprattutto, individuando i meccanismi delle coscienze, vere vie di fuga per i personaggi che intendono opporsi, più o meno fieramente (in quanto “pecore bianche” o semplicemente cittadini o funzionari dello Stato), al sistema malavitoso. Sorprendentemente, tali segnali di speranza sono comunque intrisi di sicilianità, tanto che forse un oriundo tende a cogliere con maggiore facilità simili sfumature.

Eppure Damiani non proveniva dall’isola più grande del Mediterraneo, ma da piuttosto lontano, ancor più di altri registi (come, giusto per fare due esempi di analoga sensibilità, il napoletano Rosi e il genovese Germi) che avevano saputo rileggere e interpretare la Sicilia (e le sue piaghe) con personale acume. Infatti, era nato a Pasiano di Pordenone, il 23 luglio del 1922; un artigiano friulano che per narrare le sue storie ha spesso prediletto la Trinacria, riuscendo ad analizzarla al di là dei comportamenti folkloristici o, peggio, degli stereotipi, affibbiatile da tanto cinema nostrano. Dimostrando spesso di capirla nel profondo. Ma i titoli sopracitati (a ogni modo, non i soli realizzati da Damiani associabili all’argomento) non costituiscono che una piccola parte (quella che piace definire dell’“impegno civile”) dell’avventura registica del nostro, che, dopo avere esordito con Il rossetto (1960) e avere sfoggiato una certa dimestichezza con gli adattamenti letterari (L’isola di Arturo da Morante, La noia da Moravia, Il giorno della civetta da Sciascia), ha avvicinato con mestiere un’infinità di generi, dalla commedia amara (La rimpatriata con Walter Chiari) al western (Quién sabe?, Un genio, due compari, un pollo), dal prison movie (L’istruttoria è chiusa: dimentichi) al poliziesco (L’angelo con la pistola), dalla ricostruzione del fatto di cronaca (Girolimoni, il mostro di Roma, con un memorabile Manfredi) all’horror di matrice americana (Amityville Possession, secondo capitolo della saga sulla casa maledetta), dal film storico (L’inchiesta, sulla scomparsa del corpo di Cristo) al dramma metropolitano in tutte le sue declinazioni (Il sicario, Una ragazza piuttosto complicata, Goodbye & Amen), fino alla pura bizzarria (La strega in amore, Il sorriso del grande tentatore, Gioco al massacro, Assassini dei giorni di festa, sua ultima fatica, risalente al 2002). Ha contribuito alla notorietà di attori come Gian Maria Volonté (antieroico brigadiere in Io ho paura), Franco Nero (caparbio cineasta in Perché si uccide un magistrato), Giuliano Gemma (ostinato indagatore ne L’avvertimento), Michele Placido (inflessibile poliziotto ne la prima serie de “La piovra” televisiva e spietato killer nello speculare Pizza Connection); ha lanciato Ornella Muti (appena quindicenne ne La moglie più bella) e ha proposto perfino lo sciatore Alberto Tomba come action man vecchia maniera in Alex l’ariete (un errore).

La notizia della sua morte, sopraggiunta a Roma lo scorso 7 marzo e annunciata con molta distrazione dai telegiornali, priva il cinema italiano di una voce importantissima.

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