In mostra a villa Zito le luci e le ombre della pittura siciliana del XIX secolo.
di Salvo Ferlito*
Per recensire una grande mostra, quale Di là del faro, è possibile ricorrere ad almeno due registri narrativi. Per dirla con il linguaggio dell’antropologia, si può optare per una semplice “thin description” (una “descrizione sottile”), limitandosi a evidenziare la notevole e virtuosistica qualità della pittura, o si può viceversa procedere nel senso d’una ben più approfondita “thick description” (ovvero una “descrizione spessa”), cercando di analizzare i fini e le motivazioni sottesi al fare artistico. Volendo, pertanto, rimanere in superficie, non si può non sottolineare la bellezza dei tanti dipinti in esposizione e la grande perizia dei pittori siciliani che operarono fra ‘800 e primi ‘900. Volendo, invece, capire il perché di questa spiccata (e quasi esclusiva) predilezione per la pittura di paesaggio, è giocoforza rilevare come tale orientamento prioritario sia stato fondamentalmente dettato non soltanto dall’adesione alle poetiche del “vero” (contestualmente presenti in letteratura, come attestano le opere di Verga e Capuana) ma soprattutto da una voluta riluttanza ad andare oltre i perimetri d’una pur stupefacente mimesi del mondo naturale.
Per comprendere il perché straordinari virtuosi quali Francesco Lojacono (non a caso definito il “ladro di sole”), Antonino Leto, Michele Catti (e gli altri allievi, seguaci e imitatori) siano in fondo rimasti ai margini del vorticoso flusso intrapreso dalle arti visive durante l’800 (si pensi all’Impressionismo, al Simbolismo, alla “macchia” toscana), bisogna inevitabilmente adottare un’ottica comparativa con quanto avveniva contemporaneamente nel resto d’Italia ed in Europa, e ancor più un taglio sociologico che scandagli a fondo la società insulare di quell’epoca (e in particolar modo i rapporti fra artisti e committenza). Mentre altrove l’occhio indagatore si concentrava sui meccanismi (e sulle contraddizioni) della vita cittadina (si pensi alle scene ambientate dagli impressionisti o dai post-impressionisti nei locali notturni, nei bordelli o nelle strade) o sui sempiterni problemi delle diseguaglianze socio-economiche (si guardino i dipinti di Morbelli, Pellizza e Signorini in Italia, o quelli di Repin in Russia), nella pittura siciliana tutto ruotava intorno al paesaggio e alla veduta, con una espunzione quasi totale di qualsivoglia componente che potesse porre in questione le sclerotiche ingiustizie d’un assetto plurisecolare di matrice feudale e latifondista. Basti qui ricordare come i protagonisti di questa stagione delle arti insulari venissero cooptati da cerchie culturali altamente elitarie (come l’arcinoto Circolo Artistico, ai cui vertici, non a caso, si alternavano artisti e aristocratici), per capire con chiarezza le ragioni profonde (di certo non solo estetiche) alla base di scelte artistiche dagli esiti visivi di sicura raffinatezza ma anche dai connotati fortemente omissivi.
In tal senso l’esauriente sequenza di dipinti in esposizione si presta assai bene a una attenta lettura in filigrana, consentendo agli osservatori non solo di apprezzare – in luce – gli eleganti virtuosismi, ma soprattutto – in controluce – le tante e notevoli mistificazioni d’una pittura “veristica” del tutto aliena dal rappresentare la realtà.
E’ sufficiente, a tal proposito, dare uno sguardo ad opere quali Al sole di Ettore De Maria Bergler o Pescatori di telline di Francesco Lojacono o ancor più Idillio campestre di Rosario Spina e Ve ne darò di Antonino Leto, per constatare come le figure dei contadini, dei pastori e dei pescatori siano rese con modalità edulcorate ed irreali, del tutto estranee, dunque, alla durezza delle loro effettive condizioni esistenziali. Un dato assolutamente stridente con la situazione sociale, economica e culturale della Sicilia di quei tempi, come del resto attestato con chiarezza – già allora – dalle risultanze delle prime inchieste parlamentari post-unitarie, come quella arcinota di Franchetti e Sonnino, nella quale veniva evidenziata e stigmatizzata la condizione di disagio in cui versavano le masse popolari nella nostra isola, nonché la notevole incapacità, la fraudolenta malafede e soprattutto il vergognoso tornacontismo delle nuove classi dirigenti. Di tutto ciò, ovviamente (ma sarebbe più opportuno dire purtroppo), quasi nessuna traccia è avvertibile nella pittura siciliana di quei tempi. Nessun riferimento ad una organizzazione rigidamente feudale del corpo sociale (situazione perpetuatasi oltre il secondo dopoguerra del ‘900, e che di fatto ha relegato le classi subalterne in una condizione servile fino a pochi decenni fa) né alcuna analisi delle dinamiche alla base del rafforzarsi del fenomeno mafioso (che proprio in coincidenza con l’unità d’Italia, come ben descritto ne IlGattopardo di Tomasi di Lampedusa e ne IVicerè di de Roberto, andava intrecciandosi con la politica ed insediandosi sempre più nei gangli vitali del nuovo stato) né ancor meno (se non in qualche sporadico caso, come ne I carusi di Tomaselli o in Famiglia poveradiVolpeso ne L’ambulatorio e ne Gliemigrantidi Di Giovanni) approfonditi scandagli dell’estrema miseria e dell’enorme disagio in cui versavano le masse popolari. Solo un susseguirsi di ammalianti paesaggi o di scene di genere, entrambi animati da popolani ridenti e paciosi e comunque sempre “depurati” da qualsiasi contenuto urticante o problematico. E tutto ciò, sia detto con chiarezza, non per una presunta e provinciale “insularità” dei protagonisti di quella temperie storica ed artistica; in quanto i più importanti artisti siciliani di quell’epoca furono tutti largamente cosmopoliti e ben aggiornati sugli sviluppi delle arti visive nel resto del paese ed in Europa. Non solo Lojacono e Leto andarono ad abbeverarsi alle fonti “napoletane” (di Palizzi e di Morelli) della pittura veristica – per poi trasmetterne i riflessi ai loro allievi ed emuli – ma ebbero occasione di venire in contatto con esponenti della “macchia” toscana e si trovarono anche “gomito a gomito” con gli stessi impressionisti, ai quali furono affiancati (proprio in terra di Francia, a Parigi) in medesimi contesti operativi. Basta, del resto, guardare alcune esemplificative opere esposte in questa mostra, per avere piena contezza della grande capacità dei nostri artisti di assorbire le novità di carattere linguistico provenienti dalla penisola o d’oltralpe, senza però che ciò mai comportasse una piena appropriazione dello stesso atteggiamento critico nei confronti della società contemporanea a loro circostante. Una attualità di ordine estetico ma non di carattere narrativo – quella dei Nostri –, uno stare nel flusso della contemporaneità con un approccio deliberatamente superficiale, all’uopo adottato per non disturbare i “padroni del vapore” e per non inficiare i rapporti con la ricca committenza.
Detto e precisato ciò, va comunque sottolineato che Di là del faroè certamente una mostra ben costruita e adeguatamente circostanziata. Il percorso espositivo, infatti, consente una ricostruzione assai puntuale dell’evoluzione del genere paesaggistico nel corso dell’Ottocento, muovendo a partire dalla prima metà del secolo XIX e annoverando le opere degli antesignani della pittura di paesaggio in terra di Sicilia. Da Patania a Riolo (di cui viene offerta una interessante selezione di opere grafiche proveniente dalla collezione di Palazzo Abatellis), da Zerilli a Sottile – tutti e quattro autentici iniziatori del paesaggismo insulare, seppure con modalità ancora ancorate a modelli settecenteschi tipici della pittura da Grand Tour –, l’esposizione procede con capillare minuzia, annoverando quasi tutti (con l’inattesa eccezione di Rocco Lentini, allievo di Lojacono, stranamente assente in questa mostra) i protagonisti e i comprimari (compresi quelli della Sicilia orientale) della pittura veristica incentrata sul paesaggio. Un percorso espositivo – quello pensato da Sergio Troisi e Paolo Nifosì – che consente, quindi, di ricostruire con fedeltà la temperie artistica di quell’epoca – con luci e ombre, come detto – e di cogliere anche quell’insieme di tangenze, influenze e relazioni che alimentarono le tecniche, i linguaggi ed i moduli estetici dei nostri artisti più famosi. Ne consegue la possibilità, per gli osservatori, di rilevare con chiarezza le interferenze della macchia toscana – ad esempio l’espediente visivo del muro bianco calcinato dal sole, che rimanda alla Vedetta di Fattori, presente in Strada di campagna (Un giorno di caldo in Sicilia!) di Lojacono – o quelle della pittura impressionista – Autunno (Autunno sull’Anapo), del 1907, il quale denuncia l’ormai evidente sfrangiarsi della pennellata di Lojacono in più libere e sintetiche vibrazioni luministiche e cromatiche che rimandano ai modelli d’oltralpe e che emancipano il suo gesto dalla precisione lenticolare dei decenni precedenti – o ancora le influenze “orientaliste” esercitate dalle stampe giapponesi – Febbraio in Sicilia di Ettore De Maria Bergler riecheggia appieno quel delicato sentimento della natura e quella sintesi formale che sono tipici dell’estetica japoniste – o infine gli esiti visivi raggiunti dalle ricerche post-impressioniste – paradigmatico, in tal senso, Sicilia di De Francisco, con le sue pennellate materiche inclini alla destrutturazione cézanniana –.
Non meno interessante, infine, la sezione di fotografie d’epoca che affianca ed integra il percorso espositivo, in quanto in grado di contribuire significativamente ad una completa ricostruzione della temperie artistica ed estetica dei tempi. Poco importa stabilire se sia stata la nascente fotografia – con i suoi tagli e le sue inquadrature – ad influenzare l’impianto compositivo delle pitture di paesaggio di quell’epoca, o se sia stata la pittura – cosa più probabile – ad orientare il modo di inquadrare dei fotografi dell’800. Quel che conta, infatti, è il modo palesemente analogo di “guardare” il mondo esterno e la situazione contingente da parte dei pittori e dei fotografi di quel periodo. Anche nella fotografia – non a caso ai tempi appannaggio della stessa elite – è del tutto assente qualsivoglia taglio sociologico o qualunque intento di denuncia cronachistica. Per quanto di maggior immediatezza, anche il mezzo fotografico si caratterizza – ai suoi esordi in terra di Sicilia – per un approccio evidentemente elusivo e tendente alla censura e all’edulcorazione. Dovranno purtroppo passare ancora molti decenni, perché la fotografia e la pittura siciliane comincino a farsi carico delle tante, troppe e gravose problematiche sociali, economiche e culturali che in gran parte continuano ancor oggi ad attanagliare la nostra isola. Bisognerà attendere una nuova generazione di pittori – quella di Guttuso, per intendersi – affinché le arti visive siciliane comincino ad emanciparsi dal giogo di certa committenza, assumendo finalmente (nel bene e nel male) quel franco carattere politico che è tipico di cosciente autonomia e maggior maturità.
Curata da Sergio Troisi e Paolo Nifosì, la mostra potrà essere vista fino al 9 di gennaio.
*critico d’arte