L’imitazione servile dei prodotti prevista dall’art. 2598 n. 1 c.c. è una tipologia di concorrenza sleale basata sulla copiatura dell’aspetto di un prodotto, purché tale imitazione sia in grado di fare apparire agli occhi del consumatore che un bene proviene da un dato imprenditore quando, invece, è prodotto da un concorrente, avendo come obiettivo creare confusione con gli articoli e con l’attività del concorrente imitato (cfr. Cass. Civ. n. 9387/1994).
L’interesse tutelato
L’interesse tutelato, che pone il divieto specifico di atti confusori inerenti i nomi e segni distintivi o i prodotti, è quello dell’imprenditore all’identità commerciale, oltre al correlativo interesse dei consumatori contro gli sviamenti dagli stessi atti determinati, dovendosi invece ritenere estraneo alle finalità della norma l’interesse all’esclusività dell’adozione di forme non distintive o aventi carattere funzionale. Al fine di accertare l’esistenza della fattispecie della confondibilità tra prodotti per imitazione servile, occorre che la comparazione tra i medesimi avvenga non attraverso un esame minuzioso e separato dei singoli elementi caratterizzanti, ma mediante una valutazione sintetica dei medesimi nel loro complesso, ponendosi dal punto di vista del consumatore e tenendo, quindi, conto che, quanto minore è l’importanza merceologica di un prodotto, tanto più la scelta può essere determinata da percezioni di tipo immediato e sollecitazioni sensoriali, anziché da dati che richiedano un’attenzione riflessiva (da ultimo Cass. Civ. n. 29775/2008).
Importante comunicare la provenienza
Bisogna quindi verificare se il prodotto imitato presenti forme caratteristiche, individualizzanti, idonee cioè a comunicare al pubblico la provenienza dello stesso da una determinata impresa e, poi, se sussista il pericolo di confusione sul mercato. L’imitazione di forme banali o standardizzate è priva di rilievo nelle ipotesi di concorrenza sleale perché inidonea a creare confusione. La forma imitata in particolare deve essere idonea a rendere il prodotto riconoscibile sicché non è imitazione servile copiare forme comuni o caratteristiche di tutti i prodotti appartenenti a un determinato genere.
look-alike
Il nostro ordinamento, ispirato ai principi di libertà civile ed economica, tutela infatti anche la inventiva, la libera concorrenza e la “libertà di copiare”: per tali ragioni si assiste al fenomeno dei look-alike, letteralmente tradotto dall’inglese con “sembra come”, ovvero di prodotti il cui aspetto è simile a quello di beni (sopratutto di consumo) analoghi ma più noti. Con l’espressione look-alike si definisce ogni prodotto la cui confezione ricordi gli elementi tipici di altri più conosciuti e tragga benefici di mercato dalla notorietà di un’altra impresa. Si pensi ai c.d. own-brand products delle grandi catene distributive. Tale fenomeno ha trovato un più compiuto rilievo giuridico nella giurisprudenza statunitense che in quella italiana. Nel nostro paese infatti difficilmente le confezioni risultano registrate come invece avviene per il marchio.
Own brand products
Inoltre, per un’azienda non è conveniente intraprendere azioni contro i loro principali clienti (ossia le catene distributive) che adottano per i c.d. own brand products confezioni del tutto simili a quelle dei principali branded products. In questi casi, la giurisprudenza riconduce i casi di look-alike alla disciplina della concorrenza sleale, ravvisando nell’imitazione pedissequa dell’altrui confezione le possibilità di confusione di cui sopra. Diversamente l’illecito non sussiste quando le caratteristiche del prodotto non ingenerano pericolo di confusione del consumatore.
La ratio della legge
Ai sensi del succitato art. 2598, la ratio della legge è infatti volta a impedire l’instaurarsi di confusione sul mercato per uso abusivo dei segni distintivi altrui, con conseguente possibile sviamento della clientela in favore dell’impresa imitatrice. Infine, un accenno va fatto alla imitazione servile c.d. per agganciamento ricorrente quando un imprenditore, in forme pubblicitarie od equivalenti, attribuisce ai propri prodotti od alla propria impresa pregi, quali ad esempio medaglie, riconoscimenti, qualità, indicazioni, requisiti, virtù, da essi non posseduti, ma appartenenti a prodotti od all’impresa di un concorrente, in modo da perturbare la libera scelta dei consumatori (cfr. Cass. Civ. n. 9387/1994).
L’appropriarsi
Il verbo “appropriarsi” utilizzato dal Legislatore deve essere inteso non come effettiva riproduzione dei pregi dei prodotti di un’impresa concorrente, ma come auto attribuzione, in una comunicazione destinata a terzi, di caratteristiche dei prodotti di un concorrente. In tal caso l’interesse immediatamente tutelato è quello ad una leale comunicazione aziendale.