Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalisti indipendenti

Dispositivi elettronici: uso o abuso?

di Clara Di Palermo

L’uso o, meglio, l’abuso dei dispositivi elettronici oggi ha raggiunto cifre da fenomeno sociale preoccupante. Non è raro vedere per strada persone che camminano a testa china sul proprio telefono cellulare, oppure bambini che si infastidiscono se vengono distolti dal loro giochino elettronico. Oppure, cosa tristissima, persone sedute allo stesso tavolo al ristorante ma ciascuna impegnata a rispondere a messaggi o pubblicare foto.
L’abuso di questi strumenti ha un risvolto sia sociale, in termini di relazioni interpersonali, che medici dal punto di vista psicologico e posturale, vista la posizione viziata perennemente a testa china. Tutte cose non trascurabili.
La diffusione del fenomeno ci ha spinto a parlarne con un’esperta, la dottoressa Gabriella Scaduto, psicologa e psicoterapeuta a Palermo, per cercare di capire come si possano intercettare i comportamenti anomali e come intervenire.

La dr.ssa Gabriella Scaduto

Qual è l’effetto dei dispositivi elettronici sull’educazione e sulla psiche dei bambini, per fasce di età?
“Se parliamo del bambino intorno ai 4-7 anni, l’impatto è assolutamente negativo a livello emotivo. Con l’avvento della tecnologia, negli ultimi anni, quindi dai tablet, ai cellulari, si è avuto modo di osservare, anche attraverso una serie di ricerche approfondite nell’ambito dell’età evolutiva, come la pervasività della tecnologia stessa vada a inficiare le capacità emotive e relazionali del bambino”.

Tecnologia invasiva

In che modo?
“Il bambino acquisisce delle capacità nel modulare le proprie emozioni in base a ciò che gli accade quotidianamente, grazie ad un apprendimento diretto e indiretto attraverso i suoi care giver, ossia i genitori, in primis la mamma. Se, tuttavia, il rifarsi, da parte del care giver, alla tecnologia per provvedere a quella che è una sedazione dell’agitazione del bambino che vuole qualcosa che non può avere e, quindi , il piccolo non ha la possibilità di interfacciarsi sguardo con sguardo, comunicazione verbale con comunicazione verbale (quella tra il bambino e il suo care giver) in maniera adeguata, proprio perché va ad interferire il dispositivo elettronico, questo avrà una ricaduta fondamentale sull’abilità di acquisizione delle sue capacità, non solo di regolazione emotiva ma anche relazionale”.

“Proprio perché se il bambino non acquisisce le giuste capacità di regolazione emotiva, non può, innanzitutto, decodificare adeguatamente quelle che sono le sue emozioni in base alle varie circostanze in cui ritrova. Di conseguenza, non potrà decodificare adeguatamente le emozioni altrui. Questo significa che il bambino, a causa di tutte queste interferenze della tecnologia, non avrà modo di acquisire correttamente dall’adulto quelle che sono le abilità relazionali. E quindi modificherà anche le capacità relazionali con i suoi coetanei, in primis con i pari e poi con tutti gli adulti, dai familiari agli insegnanti”.

Modifiche alle capacità relazionali

“Chiaramente quando una madre si trova in difficoltà perché vede piangere il bambino per un capriccio e immediatamente gli propone come soluzione il cellulare con i video e con i giochini, piuttosto che consolarlo, questi si ritroverà subito il cellulare tra le mani. Bisogna, invece, cercare di fargli capire veramente, ma anche attraverso tutta una serie di comportamenti non verbali come l’abbraccio o una carezza, cosa c’è che non va. Il bambino in questi casi deve interfacciarsi con un essere umano non con un dispositivo elettronico. Altrimenti, il bambino non riuscirà a capire come affrontare la sua stessa emozione e non capirà nemmeno come può negoziare quella emozione con un adulto”
Modificherà anche il linguaggio?
“Certamente. Linguaggio, attenzione e memoria subiranno una depredazione proprio perché emozione e capacità cognitive sono intimamente correlate. Nel momento in cui il bambino non acquisisce in maniera adeguata tutta una serie di repertori emotivi e, quindi, relazionali, automaticamente avrà difficoltà anche nelle capacità cognitive, quindi attenzione, linguaggio e memoria. Non per niente, ultimamente si constata sempre di più una iperattività, una tendenza all’impulsività da parte di molti di questi bambini che fanno abuso di questi dispositivi elettronici”.

Usarli con parsimonia

“Con questo non voglio demonizzare tutto ciò che è tecnologia. Sono contraria al proibizionismo assoluto. Tuttavia, sarebbe fondamentale che il genitore, l’adulto quindi, riuscisse a porre delle regole ad hoc per l’uso dei dispositivi elettronici. Cioè circoscriverne l’uso ad una cornice temporale ben definita, che può essere due o quattro ore nel fine settimana per consentire al bambino sì di utilizzare la tecnologia, che ha anche il suo fascino. Ma senza che tutto ciò diventi un abuso. Ben diverso, infatti, è l’uso quotidiano che si concede”.

Si è trovata poter fare un paragone diretto tra bambini che abusano dell’uso di dispositivi elettronici e bmbini che li usano con parsimonia? Qual è tratto distintivo tra i due?
“Sì che mi è capitato. E la differenza evidente è nel grado di tolleranza allo stress che hanno questi due tipi di bambini. Quello che agisce e subisce un abuso dei dispositivi elettronici e quello che ha, invece, una gestione controllata e ponderata da parte dei genitori. L’impulsività nelle reazioni è la principale differenza tra i bambini. Il grado di tolleranza allo stress si riduce sensibilmente in quei bambini che fanno abuso della tecnologia, questi manifestano maggiore nervosismo. Un nervosismo che può venire fuori anche con una certa distruttività: bambini che vanno in escandescenze nel momento in cui gli viene negato l’uso del tablet. E, dunque, l’incontrollabilità della reazione aggressiva”.

L’incapacità dei genitori

E la reazione della mamma in questo caso?
“Estrema difficoltà a gestire, da un punto di vista emotivo, la reazione del bambino. Evidenzia limiti nel fronteggiare la reazione emotiva negativa, anche se le emozioni non sono mai negative. Neanche la rabbia o la tristezza lo sono. In queste situazioni di incapacità dell’adulto, dicevamo , è facile osservare la difficoltà, l’impotenza, e inattività dal punto di vista emotivo, della madre”.
È mai successo che il bambino cercasse una giustificazione dicendo “anche papà e mamma lo usano”?
“Sì. i bambini hanno le loro strategie per ottenere ciò che vogliono e spesso accade che anche il bimbo di soli 5 anni, ad esempio, strumentalizzi il fatto che anche il padre e la madre, che dovrebbero essere dei modelli da seguire, si ritrovino in situazioni analoghe e, quindi, a fare abuso dei dispositivi elettronici. Cosa significa ciò? Che tutto dovrebbe partire da noi adulti come esempio di vita. Non possiamo predicare tanto bene e poi razzolare altrettanto male, perché questo si rivela come incoerenza pura. Fenomeno facilmente riscontrabile in molte famiglie”.
Passiamo a un’altra fascia di età: i pre adolescenti, ossia i bambini che frequentano la scuola media. Si sono registrati casi di intolleranza verso i compagni oltre che verso gli insegnanti.Quanto di ciò può essere attribuito, ad esempio, ai videogiochi (alcuni anche violenti) o alla tv, dove ormai passa di tutto?
“Quella della preadolescenza è una fascia di età molto delicata, quella in cui non c’è ancora una personalità ben definita. Anzi proprio il contrario, c’è una costruzione in itinere. Per cui un ruolo importante viene giocato, anche in questo caso, dai genitori rispetto alla gestione controllata delle ore in cui il ragazzino potrebbe immergersi in questo mondo virtuale. Cosa che, invece, purtroppo non è assolutamente facile perché il preadolescente inizia a fare le lotte di affermazione di sé stesso nel mondo e quindi spesso c’è uno scontro dal quale escono sconfitti i propri genitori”.

“Il rischio è l’emulazione: se il ragazzino che va in full immersion in questo mondo virtuale, così come nelle tv davanti alle quali spesso viene lasciato solo, l’emulazione è il rischio maggiore dietro la porta . Il che significa che il ragazzino può identificarsi nei personaggi con cui interagisce virtualmente o visivamente e questo può scatenare tutto un correlato di vissuti emotivi di tipo negativo che hanno a che fare con la distruttività, l’impulsività, l’aggressività e concretizzando un fenomeno di cui oggi si parla tanto: il bullismo. L’identificazione con il soggetto persecutorio piuttosto che il perseguitato, è un grave rischio. Anche il bambino di indole buona, per evitare di trovarsi a essere il soggetto bullizzato, rischia di identificarsi col soggetto persecutore. Questa è una tentazione molto forte che hanno i ragazzini al giorno d’oggi, soprattutto i maschietti”.
Ma questo perché non hanno la capacità di discernere il bene dal male?
“Sì, proprio perché a monte non c’è un genitore che spieghi, verbalizzi e favorisca, nella mente del bambino preadolescente, il discernimento tra il bene e il male, quindi l’immagine persecutoria da quella perseguitata. Questi genitori non spiegano adeguatamente , verbalmente, al proprio figlio, quali sono le scelte che devono essere fatte livello sociale, esistenziale e relazionale”.
Però i dispositivi elettronici, relativamente all’uso dei social, possono diventare un problema anche per l’adulto. È emerso che molte persone si isolano e si creano un mondo virtuale nei social, con relazioni virtuali, ma poi hanno difficoltà che reali situazioni di socialità. È così?
“Sì. Parliamo di sindrome da ritiro sociale, riconosciuta dal DSM-5 (il DSM è il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, ndr). In questi casi ci troviamo di fronte a un soggetto che tende all’autogestione, in quanto adulto. Spesso non è tanto la persona che si trova dentro al problema a rendersene conto, quanto che gli sta accanto. Quindi, un genitore, il fratello, il coniuge o, in alcuni casi, anche il figlio, paradossalmente. Un figlio adulto può far notare che il genitore ha questa dipendenza”.

Isolamento sociale

“Per cui dietro a una richiesta di aiuto indiretta fatta dai familiari, il soggetto portatore del problema, può, finalmente, giungere alla consapevolezza di avere una dipendenza e, quindi, di avere sviluppato questa sindrome. Per cui, chiedere aiuto allo specialista è la cosa migliore da fare anche perché spesso, dietro a questa sindrome, si possono nascondere stati emotivi ben definiti che hanno a che fare con componenti depressive, componenti di ansia, con lutti non adeguatamente elaborati, per cui il mondo virtuale è una illusoria panacee rispetto a chi ha delle sofferenze represse non adeguatamente elaborate e trova in questa dimensione virtuale un sollievo. Il problema è che parliamo di un sollievo che nasconde una trappola: quello dell’isolamento sociale e quindi del depauperamento dell’emotività e delle capacità relazionali di quella persona”.

Rischio isolamento

Ma anche di una visione distorta della realtà?
“Certo. È una diagnosi ben precisa. Per trattare questi pazienti, si deve prima lavorare su una acquisizione di consapevolezze di cui evidentemente lui non è provvisto. Solo dopo avere acquisito queste consapevolezze, quindi a seguito di un confronto con il suo stesso stato emotivo profondo, il paziente può venire a capo della sua reale situazione problematica e solo da quel momento può mobilitare, nel percorso psicoterapeutico, delle risorse interne che quasi sempre ci sono. A meno che non si parli di disturbo depressivo maggiore, ci sono sempre delle risorse che possono essere mobilitate e messe a servizio del paziente stesso”.
Vengono da soli o sono accompagnati da chi spinge a consultare uno psicologo e psicoterapeutico?
“Ognuno ha una soggettività e quindi c’è chi riesce a venire qui da solo, ma con grande imbarazzo; c’è chi arriva qui da solo, ma con una forte motivazione a star meglio; c’è chi, invece, viene qui chiedendo al familiare o all’amico di essere accompagnato. E chi accompagna spesso è il soggetto inviante. Sovente vengo contattata, in prima battuta, non dal paziente stesso, ma da qualcuno che gli sta vicino. Per cui può accadere che io inviti l’inviante ad accompagnare il paziente, anche per favorirne l’inserimento in questo contesto che è, comunque, un contesto protetto, soprattutto dal punto di vista della privacy. Il paziente poi si ambienta e si inizia la terapia”.

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