“La festa del lavoro, il 1° maggio, dovrebbe forse tornare ad avere il senso che aveva una volta, quando le battaglie sociali erano veramente sentite dalla popolazione. Oggi noi festeggiamo ricorrenze che troppo spesso la cittadinanza non comprende”.
Emmanuele Napoli, 25 anni, nato a Terrasini ma trasferitosi nel capoluogo lombardo per ragioni di studio, una laurea in Giurisprudenza all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, attivista politico e molto attivo anche in ambito sociale e universitario, non ha dubbi: la festa del lavoro non è più percepita, dai più, nella sua vera essenza.
Il lavoro è una conquista, soprattutto per le donne
Concerti, feste e iniziative, quasi come una sagra, fanno perdere di vista il valore del lavoro che non è solo attività finalizzata all’emolumento mensile.
Il lavoro è stata una conquista negli anni, soprattutto per le donne che in molti paesi del mondo si vedono ancora negare l’istruzione e la dignità di un lavoro che le possa rendere libere e indipendenti.
Incontriamo Emmanuele Napoli per una intervista, incuriositi dal tema della sua tesi di laurea, “Giusta retribuzione: la direttiva sui salari minimi adeguati nell’UE”, un interessante viaggio nel mondo del lavoro nel suo aspetto considerato premiale, cioè il salario.
“Bisognerebbe dar forza al valore che c’è dietro al 1° maggio – afferma Emmanuele Napoli – e io penso che, anche quando si parla di giusta retribuzione o di povertà lavorativa, dovremmo riprenderci quella dimensione sociale che abbiamo perso negli anni e abbiamo dimenticato”.
Cosa è per lei il lavoro, come dovrebbe essere considerato dai giovani?
“Il lavoro è il diritto più importante su cui si basa la nostra Costituzione, se capissimo che il 1° maggio non è solo la festa dei lavoratori ma è la festa di un principio fondamentale della nostra Costituzione: è la festa del Lavoro. Il Lavoro è la parte più importante della dignità umana. La dottrina ci dice che non può esserci dignità umana se non si considera il lavoro come un diritto umano. Il lavoro è il fondamentale diritto non necessario per la sopravvivenza, ma necessario per vivere, nel senso di essere parte attiva della società”.
Il diritto a una giusta retribuzione, sia per uomini che per donne
“È grazie al lavoro che puoi garantire l’istruzione a te e alla tua prole, i diritti abitativi, prendere parte alla cultura, alla politica, alle dinamiche sociali ed economiche di una comunità – continua Napoli -. Se noi continuiamo a vedere il lavoro come un onere a cui adempiere per tirare a campare, ci piegheremo sempre alle dinamiche del mercato del lavoro, senza risolvere i problemi che lo caratterizzano. Guardo con ottimismo, in questo senso, ai giovani che non accettano quelle logiche del lavoretto sottopagato, magari in nero, perché non lo trovano soddisfacente. E questo perché il lavoro non deve essere a ogni costo, ma deve garantire una retribuzione che possa garantire una crescita propria e della società”.
Ma ci sono realtà sociali in cui anche un piccolo lavoro, con una piccola retribuzione, fa la differenza in un nucleo familiare…
“Ma anche io ho lavorato mentre studiavo, diversi lavori e lavoretti che mi consentivano di andare incontro alle esigenze della mia famiglia che mi garantiva di poter frequentare l’università che avevo scelto e mi supportava nel mio percorso di istruzione. Bisogna lavorare e bisogna mettersi in gioco. Ma quando tu sei cosciente di meritare di più, ci devi puntare. Non puoi piegarti alle dinamiche per cui va bene qualsiasi tipo di retribuzione perché altrimenti il sistema non cambierà mai”.
Cosa intendiamo per giusta retribuzione? Può essere garantita?
“La giusta retribuzione, secondo la Dichiarazione universale dei diritti umani, è quella che garantisce a ogni individuo che lavora, una remunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale. Anche l’Art. 36 della nostra Costituzione afferma questo diritto. Ma circa il 12% dei lavoratori italiani può essere considerato in stato di povertà lavorativa e le forme di lavoro irregolare, principale distorsione del mercato del lavoro, costringono circa 5 milioni di cittadini italiani a sottostare a un sistema sommerso privo di diritti e garanzie”.
Giusta retribuzione e mercato del lavoro
“Nella mia tesi – aggiunge Napoli – ho cercato di dare un contributo al dibattito sul salario minimo dal punto di vista giuridico, con l’ambizione di tracciare le lacune tra la teoria della giusta retribuzione e la dimensione reale del mercato del lavoro. Una tesi che prende spunto anche dalla realtà territoriale in cui sono cresciuto (nella provincia di Palermo, ndr) e che spesso non consente una progettualità, dove chi lavora ha sovente uno stipendio da fame col quale è difficile arrivare a fine mese o essere parte attiva della società, godere della cultura, dell’istruzione, dei diritti abitativi. In Italia sono circa 5 milioni i cittadini colpiti dalla povertà lavorativa, in Sicilia percentuali al di sopra del 20%. Il salario minimo è, a mio avviso, uno strumento fondamentale per combattere la povertà lavorativa. Io che lavoro non posso essere vittima, col mio stipendio, della povertà”.
La realtà di una “ingiusta retribuzione”
Come si concilia, dal punto di vista del lavoratore, il concetto di giusta retribuzione con il mercato del lavoro odierno e con le azioni che dovrebbe mettere in atto la politica?
“Il principio di sufficienza e proporzionalità delle retribuzioni, a cui di rifà l’art. 36 della nostra Costituzione, in qualità e quantità del lavoro per garantire un’esistenza libera e dignitosa, oggi non c’è. Nel sud Italia c’è la questione della legalità del lavoro, causata dal lavoro sommerso, soprattutto nei contratti stagionali, un problema che nel meridione supera il 20% e in Sicilia supera abbondantemente il 25% del totale dei lavoratori. A questo va aggiunto il problema della contrattazione pirata. Sono i contratti posti in essere da sindacati o parti sociali poco rappresentative, e quindi non i sindacati confederali, che vanno a stipulare contratti i cui minimi tabellari sono di molto inferiori a quelli proposti dai confederali. Questo può avvenire anche perché c’è una forte crisi della rappresentatività”.
Il concetto di giusta retribuzione, come contempla il tanto dibattuto gap tra stipendi di uomini e donne?
“I dati ci dicono che, effettivamente, il gap salariale tra donne e uomini esiste. E non mi riferisco tanto allo stipendio a parità di ruoli. Gli uomini guadagnano di più anche perché hanno maggiori possibilità di fare carriera. Infatti la maggior parte di ruoli dirigenziali, sia nel pubblico che nel privato, è ricoperto da uomini. I consigli di amministrazione delle più grosse aziende sia pubbliche che private dimostrano che questa differenza, statisticamente, c’è. Per non parlare di quando ai colloqui di lavoro viene chiesto alle ragazze se hanno intenzione di metter su famiglia e fare figli!”.
I numeri
I dati Istat ci dicono che nel 2022, circa 2,7 milioni di persone (11,5%), malgrado lavorassero, erano a rischio di povertà. La situazione è più grave per i lavoratori stranieri: a rischio di povertà quasi un quarto di loro.
E nel 2023, sempre stando ai dati Istat, sono 5,72 milioni i cittadini in povertà assoluta, con una capacità di spesa, al mese, che non consente loro di assicurarsi uno standard di vita minimamente accettabile, cioè fare ciò che si fa tutti: acquistare dei vestiti, pagare le bollette, fare la spesa senza stare a contare i centesimi di ciò che si è messo nel carrello.
Sembra incredibile ma sono quasi 950 mila le famiglie che, pur avendo un reddito da lavoro dipendente, vivono in povertà assoluta. E sempre lo scorso anno, i salari sono cresciuti del 3,1%, ma l’inflazione del 5,9%.
Donne e contratti di lavoro
In settembre 2023 l’Istat afferma che, dati alla mano, sono le donne a essere principalmente coinvolte in una tipologia di rapporto di lavoro definito “non-standard”, cioè contratti a termine e part time involontario. Il 27,7% delle occupate è costituito da lavoratrici non-standard contro il 16,2% degli uomini.
La quota di lavoratori non-standard raggiunge il 45,7% tra le donne giovani (a fronte del 33,9% dei coetanei), il 36,1% tra le residenti nel Mezzogiorno (22,1% gli uomini della stessa ripartizione), il 36,4% tra le donne che hanno al massimo la licenza media (18,6% gli uomini con lo stesso livello di istruzione) e arriva al 40,7% tra le straniere (28,3% tra gli stranieri maschi).
Lo svantaggio femminile si evince anche dalle retribuzioni: i dati del 2019 mostrano che in media le donne percepiscono una retribuzione oraria dell’ 11% inferiore a quella degli uomini, con differenze territoriali che variano tra il -13,8% nel Nord-ovest e il -8,1% nel Sud.
(Fonte dati: Istat)
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